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    Speciale CONNECT

    INTERVISTA A MICHELE FARISCO                                                                                                                                                               

    Dottore Farisco, il suo ruolo all’interno del progetto internazionale CONNECT sui rapporti rene-cervello si può considerare significativo, e non solo con riferimento alla squadra di Biogem, per la sua preziosa funzione di raccordo tra le due anime della ricerca coinvolte, ma anche per la sua capacità organizzativa. Può, quindi, a beneficio di chi non ha familiarità con l’argomento, descrivere l’essenza di CONNECT?

    CONNECT è l’acronimo di un progetto internazionale, la cui denominazione per esteso è ‘Cognitive decline in nephro-neurology: European Cooperative Target’. Trattandosi di una COST-Action, il progetto non prevede direttamente delle attività di ricerca, ma piuttosto mira a rafforzare la cooperazione internazionale tra diversi gruppi, tra cui Biogem, attivi sul tema del rapporto tra patologie renali e declino cognitivo. CONNECT, la cui direzione scientifica è affidata al professore Giovambattista Capasso, direttore scientifico di Biogem, comprende cinque gruppi di lavoro, relativi ai seguenti ambiti: ricerca pre-clinica; ricerca clinica; trials clinici; pratica clinica; gestione dei dati e bioinformatica; inclusione e comunicazione. La natura del progetto è, quindi, spiccatamente multidisciplinare, nonché di ampio respiro internazionale, con ben 27 Paesi coinvolti.

    E adesso ci fa un riassunto delle puntate precedenti?

    CONNECT è partito ad ottobre 2020 e si concluderà nello stesso mese del 2024. Il network ha finora prodotto numerose pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali, approfondendo il complesso tema del rapporto tra disfunzioni renali, incluso il danno renale cronico, e declino cognitivo. Si tratta di un tema di frontiera, ancora poco approfondito e potenzialmente innovativo sul piano clinico, il quale pone anche diverse questioni di tipo etico. Oltre alla produzione scientifica, CONNECT ha reso possibili diversi incontri tra i membri del network, sia online, nella fase iniziale segnata dalla pandemia, sia in presenza, di cui uno a Biogem nel settembre del 2022. Molto importanti sono, inoltre, le Short Term Scientific Missions finanziate da CONNECT, ossia dei periodi di soggiorno in istituti internazionali per giovani ricercatori. In particolare, sono stati organizzati soggiorni di ricerca in Italia, incluso Biogem, Spagna, Grecia, Serbia, Turchia, Portogallo. Sono state inoltre organizzate quattro training schools, ossia scuole di formazione per giovani ricercatori, in Serbia, Portogallo e Italia (a Napoli e ad Ariano Irpino, presso Biogem).

    La tappa a Biogem quale apporto ha dato?

    La Short Training School che ho organizzato a Biogem il 9 e 10 ottobre scorsi è stata incentrata sulla rilevanza clinica della modellistica computazionale applicata al cervello. Sono stati due giorni di intensa riflessione multidisciplinare. Neuroscienze computazionali, intelligenza artificiale, bioinformatica, psichiatria, medicina, ma anche filosofia ed etica si sono infatti ritrovate a dialogare in un clima di reciproco sforzo di comprensione. Al di là dei contenuti, pure significativi, ritengo che il contributo principale dell’ultimo appuntamento a Biogem sia stato proprio lo sforzo, in gran parte riuscito, di mettere insieme discipline diverse per riflettere sullo stesso tema, letto da prospettive appunto diverse, ma convergenti.

    Un suo bilancio, ad oggi, dell’intero progetto?

    Ritengo che il risultato più significativo del progetto sia aver creato le premesse per un avanzamento delle conoscenze sul tema particolare del rapporto tra rene e cervello. Ormai è chiaro che la ricerca scientifica, necessariamente specializzata, deve sforzarsi di andare oltre gli steccati che separano i diversi ambiti e tendere a una visione la più unitaria possibile. In particolare, in ambito medico sono sempre più numerose le evidenze che il corpo è un sistema unitario, le cui diverse parti interagiscono in modo diretto o indiretto tra di loro. Si pensi, per esempio, a quanto il microbiota, ossia la popolazione batterica del nostro intestino, impatti sulle funzioni cerebrali e psichiche. I dati sul rapporto tra rene e cervello sono meno numerosi, ma altrettanto chiari nell’evidenziare la necessità di uno stretto rapporto di collaborazione tra nefrologia e neurologia. CONNECT ha posto delle solide basi affinché tale rapporto si concretizzi in fruttuose attività di ricerca.

    E uno sguardo alle prossime tappe?

    Si apre l’ultimo anno del progetto, per cui è tempo di tirare le fila e raccogliere i frutti di quanto seminato. Il primo obiettivo è l’elaborazione di una proposta di progetto per finanziamenti europei. E posso dire che il network è già costituito, ed è caratterizzato da significative competenze in diversi ambiti. Può inoltre contare sulla presenza di istituti di ricerca di rilevanza internazionale, tra cui Biogem, che avrà un ruolo di primo piano nell’attività di ricerca che, siamo certi, deriveranno da CONNECT.

    Da ricercatore molto impegnato su temi al confine con il mondo strettamente umanistico, quale quello della coscienza, quali spunti e arricchimenti ha tratto dagli incontri di studio internazionali del progetto CONNECT ai quali ha partecipato?

    Ho trovato un clima di sincera accoglienza da parte di persone impegnate in ambiti piuttosto diversi dal mio. Sono l’unico filosofo del progetto, ma non mi sono mai sentito “un pesce fuor d’acqua”. In parte perché prediligo il lavoro multi-e inter-disciplinare, in parte perché i membri di CONNECT sono aperti anche alle sollecitazioni provenienti dalla riflessione filosofica. Abbiamo, per esempio, realizzato un’indagine su alcune tematiche di tipo etico, e la partecipazione è stata numerosa. La stesura dell’articolo derivante da tale indagine è in fase avanzata e ho potuto contare sulla collaborazione di numerosi ricercatori di CONNECT. Si conferma, insomma, una mia radicata convinzione: le diversificazioni disciplinari, pur necessarie, devono essere funzionali a un approccio orientato ai problemi da analizzare, al di là di ogni separazione o barriera tra le discipline.

    In medicina un approccio del genere rappresenta il futuro o è già una realtà generalizzata?

    Sulla base della mia personale esperienza, direi che siamo in una fase di passaggio. Su temi come la coscienza, per esempio, è molto avanzata la collaborazione tra medici, neuroscienziati, bioinformatici, esperti di intelligenza artificiale, fisici, matematici, filosofi, eticisti, giuristi. Il tema è di per sé complesso e richiede, quindi, un approccio complesso. Lo stesso vale anche per altri ambiti medici, ma siamo ancora in una fase, per così dire, prodromica, una sorta di alba di una nuova stagione di collaborazione multi- e inter-disciplinare, le cui premesse sono già in essere. Tuttavia, c’è ancora molto da lavorare.

    Quanto ha contato per la comunità scientifica di Biogem un’esperienza come questa?

    Credo che la comunità di Biogem debba essere fiera dell’opportunità di incontrare ricercatori provenienti da altri Paesi e docenti di prestigio internazionale. Hanno partecipato alla scuola 13 giovani ricercatori provenienti da 8 Paesi (Albania, Germania, India, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Serbia), e docenti dall’Italia e dall’estero (Francia e Spagna). Non è semplice coinvolgere gli attori della ricerca internazionale in eventi di questo tipo. Nel caso di Biogem, inoltre, si aggiungono le difficoltà di tipo logistico-organizzativo. Pertanto, non è scontato organizzare eventi di questo tipo. Biogem ha dato un’ulteriore prova di essere una realtà viva, inserita in ambiti internazionali e attiva su temi di frontiera, come il rapporto tra rene e cervello. 

    Progetti simili per il futuro?

    Nel mio piccolo, coltivo diverse collaborazioni scientifiche con ricercatori di ambiti diversi, tra cui medicina, neuroscienze, robotica, intelligenza artificiale. L’anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato qui a Biogem una conferenza sulla coscienza, con relatori molto autorevoli, che stanno letteralmente tracciando il sentiero delle ricerche in questo ambito. L’obiettivo è rafforzare la presenza di Biogem anche in questi studi, se non direttamente sugli aspetti di tipo strettamente scientifico, sui loro risvolti teorici, etici e anche giuridici, in coerenza con la vocazione del nostro Istituto a costruire un ponte tra le 'due culture”.

    Ettore Zecchino

     
    Andrea Di Maso

    Manager in ambito formativo, coordinatore del Programma UIIP (University-Industry Internship Program), cura, di concerto con i responsabili delle imprese partner, tutte le fasi della progettazione e dell’attuazione del Programma stesso.

    Skill & Expertise

    • Gestione e coordinamento di progetti di reclutamento e formazione di risorse umane, per conto di importanti imprese ICT (Information and Communications Technologies) nazionali e internazionali.
    • Coordinamento del gruppo di lavoro impegnato sul Programma UIIP.
    • Selezione di risorse junior.
    • Career service & tutoring, con particolare riferimento alla definizione dei percorsi di carriera degli allievi di UIIP.
    • HRM Trainer, con particolare riferimento alle tematiche connesse alle soft skills in ambito lavorativo.

    Dottore Di Maso, ci regala qualche flash sulla sua vita, non solo professionale, precedente a UIIP?

    Nato e cresciuto fra Napoli e provincia, faccio parte di quella “generazione di mezzo”, classe 81, difficile da etichettare. Per alcuni, infatti, facciamo parte dei millennials, per altri no. In ogni caso, siamo nati un po’ troppo tardi per cogliere i benefici del boom economico italiano, che lentamente si affievoliva col finire degli anni 80, ma un po’ troppo presto per essere a pieno dei nativi digitali e figli della nuova era del boom tecnologico. E chissà che questa non sia stata una fortuna! Vivere a cavallo fra epoche molto diverse fra loro ci ha infatti insegnato ad analizzare le cose secondo diversi punti di vista, utilizzando vari paradigmi interpretativi. Con la sola costante di un mondo in continua e rapida evoluzione, e con la tecnologia quasi sempre al centro dei cambiamenti sociali e lavorativi!

    Comunque, dopo il diploma di Liceo Classico, nel gennaio 2005 conseguo la laurea in Economia Aziendale all’Università Parthenope di Napoli. Sono sposato, ho una figlia di nome Aurora, un cagnolino (precisamente un Cavalier King) e una grande passione per la squadra campione d’Italia 2022/23 (dopo 33 anni di attesa un po’ di compiacimento è d’obbligo).

    E giunge poi il tempo della straordinaria avventura di Biogem Campus. Quali gli inizi?

    Dopo la laurea ho cominciato a collaborare con l’Università del Sannio, che all’epoca gestiva, mediante il centro di eccellenza RCOST, dei Master post laurea sulle tecnologie del software, localizzati ad Ariano Irpino. Per una serie di ragioni, quell’esperienza stava per volgere al termine, ma intanto, nel territorio arianese, era nata questa importante e innovativa realtà, di nome Biogem Scarl. Grazie alla lungimiranza del nostro Presidente, Ortensio Zecchino, si decise di non dispendere il know how e l’esperienza dei master in tecnologie del software. Tali master furono quindi inclusi nelle attività di Biogem, ma sotto una veste rinnovata, che usciva dal paradigma universitario, per sposare una nuova metodologia, con taglio prettamente aziendale. Di qui, una formazione più snella (in media i nostri corsi durano 8/10 settimane) e sempre più cucita su misura, in base alle esigenze delle aziende, in termini di profili in entrata, aree tematiche trattate, profili in uscita.

    Dal 2010 UIIP diventa, a tutti gli effetti, un’attività di Biogem, e, con il mio gruppo, entro a far parte del team lavorativo di tale ente.

    Come spiegare la natura dell’iniziativa a una persona non particolarmente esperta in materia?

    Bisogna partire dal presupposto che il mercato del lavoro ha un grosso fabbisogno di figure professionali (anche junior) con capacità applicative orientate al settore del digital, e più in generale, del computer sciences.

    Alcune importanti aziende, alla luce delle difficoltà di reperimento di tali profili, hanno deciso di affidare a UIIP la selezione e la formazione di figure professionali junior (laureati di 1° e 2° livello) che, dopo un periodo intensivo di formazione d’aula, con pratica su strumenti digitali (Software di gestione Aziendale SAP, Software per l’Analisi dei Dati, Software per la realizzazione di interfacce Web), vengono inseriti nell’organico delle aziende stesse, prima attraverso una fase di stage e poi con inserimenti contrattuali stabili. In sintesi, UIIP è una vera e propria Academy, (un’anticamera che precede l’inserimento nelle aziende partner del programma), costituita da 8/10 settimane di apprendimento in aula, sia in ambito tecnologico, sia dal punto di vista delle soft skills. Sono quindi valorizzate tutte quelle capacità trasversali (team work, pubblic speaking, approccio professionale, comunicazione in ambito lavorativo) ormai centrali per chi ambisce a percorsi di carriera importanti in ambito aziendale.

    Quale peso l’opinione pubblica attribuisce a questo tipo di formazione?

    In molti ambienti, non solo aziendali, si parla di UIIP come di una vera e propria eccellenza, un modello piuttosto unico nel suo genere. Ciò ci gratifica e ci spinge ad andare avanti con impegno, così come ci gratificano i tantissimi feedback positivi degli ex Uiippers (nome in codice di chi partecipa all’iniziativa). In giro si può trovare anche qualche feedback negativo su UIIP…ma questo fa parte del gioco.
    C’è anche da dire che UIIP non è una passeggiata di salute. Il modello prevede infatti una fase didattica (pratica) in aula dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 18.00, ma poi le attività per gli Uiippers continuano con task di gruppo e consegne quotidiane (di progetti/esercitazioni che simulano consegne progettuali aziendali inerenti alle materie affrontate in aula) che possono arrivare fino alle 3.00 del mattino. Insomma, a UIIP si dorme poco, ma affrontando tutto in team, le poche ore di sonno e lo stress si sentono meno.

    Il rapporto preciso tra Biogem e il Programma UIIP?

    Il programma UIIP è a tutti gli effetti un progetto di Biogem. Le aziende che si affidano a UIIP per la selezione e la formazione di risorse Junior, stipulano una partnership con Biogem, erogando finanziamenti a copertura dei costi di realizzazione delle Academy. Ed è grazie a questi finanziamenti che UIIP è completamente gratuito per chi vi partecipa. Una volta acquisite le commesse aziendali, con gli altri membri del team UIIP, in particolare con l’aiuto prezioso della dottoressa Antonella Saporito, che mi supporta nel coordinamento delle attività, gestisco le varie fasi del progetto (selezioni delle risorse, monitoraggio dell’aula, progettazione/programmazione didattica, erogazione di laboratori soft skills, gestione del processo di placement aziendale), in raccordo costante con i manager di riferimento delle aziende partner del Programma. In questo processo non manca mai il supporto dei principali uffici di Biogem (amministrazione, ufficio tecnico) nonché del Direttore Amministrativo, Tullio Bongo, da sempre prezioso riferimento per quanto attiene la gestione degli aspetti amministrativi delle varie Accademy.

    Quanto è diffuso tale modello in Italia, e, in particolare, nel Mezzogiorno?

    Molte delle iniziative innovative afferenti al settore digital vedono protagonista il Mezzogiorno d’Italia, e spesso proprio la Campania, come hub di riferimento. Non che la questione meridionale sia improvvisamente scomparsa, ma sicuramente in questo settore, ad oggi, non vi è la sensazione di un gap forte con altre aree del Paese. Su questo solco si innesta anche il Programma UIIP, che ormai comincia a vedere fra le sue fila circa un 30% di allievi provenienti dall’Italia Centro-Settentrionale. Segno che questo tipo di modello formativo rappresenta una sorta di unicum nel panorama nazionale, in primis grazie alla completa gratuità per i partecipanti, ma anche per la didattica innovativa, fondata sull’apprendimento pratico e sull’utilizzo di tool applicativi effettivamente utilizzati dalle aziende partner. Senza dimenticare che siamo una delle poche Academy che (post covid) si svolge totalmente in presenza, garantendo non pochi benefici in termini di condivisione dell’esperienza e delle competenze, secondo un paradigma non molto dissimile da quello dei campus di matrice anglosassone.

    Quali sono le imprese più importanti tra quelle che hanno partecipato a UIIP?

    La multinazionale Accenture (attraverso le sue molteplici sedi italiane di Napoli, Bari, Cagliari, Roma, Milano, Torino) è il ‘main sponsor’ della maggior parte delle iniziative formative erogate da UIIP Biogem negli ultimi 10 anni. Fra i partner aziendali di UIIP annoveriamo (a titolo non esaustivo) anche Deloitte, Reply, BGP Management Consulting, Sopra Steria Group, Digitouch.

    Grazie anche alle partnership con queste aziende UIIP ha raggiunto i seguenti importanti numeri: 59 edizioni erogate; circa 4mila giovani formati; un placement aziendale del 98%.

    E le sue edizioni del cuore?

    UIIP 13° edizione, nell’ormai lontano Febbraio 2012, con punte di –10 gradi centigradi e con quasi un mese di abbondanti nevicate che paralizzarono l’Irpinia e ampie zone del Centro-Sud. Non so come, ma siamo riusciti ad andare avanti con i corsi. Insomma, un’edizione per certi aspetti epica.

    UIIP 36° edizione, Settembre 2018…la prima presso la sede di palazzo Bevere, prestigiosa e centralissima sede, che da cinque anni è la casa del Programma UIIP.

     

    Quanto pesa il lato umano e relazionale in corsi così immersivi?

    Capita di incrociare direttamente, o via web, ex allievi di molte edizioni. Spesso ci dicono che UIIP, dal punto di vista umano e di crescita personale, è stata la più bella e significativa esperienza della loro vita.
    Da un lato UIIP mira a fornire competenze tecniche, dall’altro è una palestra per sviluppare e migliorare il lato umano e relazionale di ciascun allievo che partecipa. D'altronde, parliamo di una full immersion di 8/10 settimane, nel corso della quale gli allievi condividono spazi ed esperienze h24, sia in aula sia fuori (anche grazie alla residenza dello studente di Biogem, che ospita 42 UIIppers in ogni edizione). Empatia, spirito di adattamento, capacità di confronto non possono mancare.

    Quale impatto ha il programma UIIP sul territorio?

    Avere ogni anno, complessivamente, 300 giovani (suddivisi in quattro edizioni) che studiano e risiedono (se pur temporaneamente) nel centro cittadino di Ariano Irpino, rappresenta un elemento di vivacità e di sviluppo non banale per il territorio. Da sempre la comunità arianese è ospitale e gentile con i giovani del programma UIIP. A questo aggiungiamo che sono oltre 150 i giovani arianesi o di aree limitrofe al Tricolle ad avere trovato impiego grazie alle opportunità offerte dal programma UIIP.

     

    Le novità già in cantiere e i progetti in corso?

    Al momento si sta svolgendo la 59° edizione del programma, che vede in aula 75 giovani, provenienti da tutta Italia, ma, allo stesso tempo, abbiamo avviato i bandi (presenti sul sito www.uiip.it) e le selezioni della 60° edizione, che prenderà il via il 21 settembre.

    Il nostro progetto? La continuità! Che, mai come in questo caso, non è per nulla banale o scontata. Ogni nuova edizione di UIIP è una piccola start-up che nasce. Bisogna quindi trovare aziende che investano nell’iniziativa, per poi selezionare accuratamente giovani talenti e accompagnarli verso il placement, con un percorso intenso e sfidante

    Sarebbe bello ‘vivere’ fra 10 anni, nel 2033, l’edizione numero 100 del Programma UIIP Biogem.


    Ettore Zecchino

    Michele Caraglia

    Responsabile del Laboratorio di Oncologia Molecolare e di Precisione, Michele Caraglia, professore ordinario presso l’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, è ormai tornato alle sue attività ordinarie a Biogem, dopo la lunga fase ‘pandemica’, che lo ha visto a capo dell’area COVID-19.

    A distanza di circa due anni, lo risentiamo.

    Professore, è ormai tempo di bilanci definitivi sull’esperienza dell’area COVID-19 di Biogem?

    Per molti mesi, il mio laboratorio, guidato operativamente dalla dottoressa Marianna Scrima, è stato impegnato a ‘sfornare’ ogni giorno fino a 1.400-1.700 risultati molecolari di tamponi nasofaringei per SARS-CoV-19. Il tutto corredato da referto diagnostico vidimato. Un’esperienza molto formativa, che ci ha fatto, tra l’altro, comprendere quanto l’attività di diagnostica sia diversa da quella di ricerca scientifica, richiedendo, accanto alla precisione del risultato ottenuto, la velocità del rilascio di un referto ad uso clinico.
    Questa nostra attività ha inoltre offerto al territorio di Ariano Irpino e delle intere province di Avellino e Benevento, un servizio per il quale le ASL e i laboratori privati non erano ancora attrezzati, almeno nelle fasi iniziali dell’emergenza pandemica. Ha infine dato la possibilità a Biogem di poter mostrare a tutti l’utilità del proprio operato, mettendosi al servizio della comunità in un momento particolarmente difficile.

    Quanti dei progetti di ricerca allora avviati sono oggi terminati? E con quali risultati?

    Durante la fase emergenziale, quando il laboratorio era attivo per 12-14 ore al giorno, abbiamo portato a termine due progetti di ricerca, entrambi pubblicati su riviste internazionali ad alto impact. Il primo ci ha visto operare in cooperazione con una start-up Irpina (TESTAMI), per la messa a punto di un test molecolare da tampone nasofaringeo autosomministrato dal paziente, che ha la possibilità, senza muoversi da casa, di ricevere, entro le 48 ore successive, il referto diagnostico, su piattaforma informatica. Il secondo progetto ci ha consentito di verificare, già dopo la seconda ondata pandemica di Sars-CoV-2, la comparsa di decine di mutazioni in geni rilevanti sull’RNA codificante virale. E’ stata così evidenziata la notevole suscettibilità mutazionale del virus, alla base, nelle prime fasi della pandemia, della sua elevata virulenza, ma che ha permesso la selezione di ceppi virali a meno elevata virulenza, nelle fasi finali della pandemia stessa.
    Attualmente è in corso un progetto di ricerca, finanziato dalla Regione Campania (Epi-Genius), in collaborazione con la professoressa Lucia Altucci, che ha lo scopo di identificare la suscettibilità genetica ed epi-genetica dei pazienti affetti da infezione da Sars-CoV-2 a sviluppare malattia, sintomatica o meno. Tale progetto svelerà la suscettibilità dei pazienti al Sars-CoV-2 e ad altri virus correlati emergenti.

     

    In che modo le nuove competenze acquisite sono state riversate nell’attività 'ordinaria’ del suo Laboratorio?

    Le competenze acquisite in questo campo specifico ci hanno permesso di disegnare un progetto di ricerca dedicato allo studio della suscettibilità individuale ad infezioni virali e di toccare con mano le procedure indispensabili per eseguire test molecolari di qualità. Queste attività saranno certamente utili a comprendere i processi organizzativi nel laboratorio di diagnostica genetica che Biogem sta allestendo.

     

    L’annuncio di Moderna sul cosiddetto vaccino anti-tumorale entro il 2030 inciderà sulla programmazione della ricerca da parte del suo team?

    I vaccini con attività antitumorale sono un’arma alla quale ricercatori di tutto il mondo stanno lavorando ormai da 40 anni. Il set-up dei programmi e schemi vaccinali fino ad oggi non ha, tuttavia, fornito risultati clinici esaltanti. In compenso, il vaccino anti-SarS-Cov-2 ha dato degli insegnamenti importanti su come sviluppare e somministrare un vaccino basato sulla veicolazione nanotecnologica in liposomi modificati di RNA. Questo ha aperto lo scenario allo sviluppo di strategie vaccinali innovative, non solo contro il cancro, ma anche contro patologie cardiovascolari e malattie rare.
    Comunque, non sono aduso agli eccessivi entusiasmi in seguito ad annunci roboanti. Quindi, stiamo a vedere….

     

    E la collaborazione sempre più diretta tra Biogem e il professore Antonio Iavarone, impegnato a Miami?

    Ringrazio ancora Biogem per avermi dato la possibilità di conoscere il professore Antonio Iavarone, uno dei ricercatori di spicco, a livello mondiale, nel campo della medicina di precisione in ambito oncologico. Con lui e con il professore Michele Ceccarelli (responsabile del nostro laboratorio di Bioinformatica) stiamo lavorando alla possibilità di sviluppare un test sul sangue di pazienti affetti da neoplasie, basato sullo studio della metilazione e frammentazione del DNA tumorale circolante, in grado di fare diagnosi precise sul tipo di tumore e sul sito di origine della neoplasia (stomaco, mammella, pancreas, polmone, colon etc.).
    Un ambizioso obiettivo collegato è la determinazione della prognosi e della sensibilità alla terapia dei pazienti. Vorrei sottolineare che questo progetto è stato eseguito prevalentemente a Biogem, sia per la parte riguardante la raccolta dei campioni biologici e analisi del DNA tumorale circolante, sia per quella relativa alle analisi bioinformatiche.  A questo proposito, vorrei ringraziare la squadra del mio laboratorio, composta dalle dottoresse Marianna Scrima, Piera Grisolia e Cinzia Graziano.

     

    Il ‘core business’ del suo laboratorio rimane lo studio sul tumore della laringe. In questo campo, quali novità può trasmetterci?

    Il carcinoma della laringe ha principalmente come isotipo tumorale quello squamoso. Le maggiori difficoltà in questo campo sono: la diagnosi tardiva (effettuata quando sono già presenti invasione locale o metastatizzazione a distanza); la mancanza di molte armi terapeutiche da poter impiegare nello stadio avanzato; e la difficoltà di rilevare, al momento dell’intervento, la presenza di micro-metastasi linfonodali loco-regionali. Dal punto di vista terapeutico, negli ultimi anni sono state impiegate, anche nel campo del carcinoma della laringe metastatico, i nuovi immunoterapici (i cosiddetti ‘immunological check point inhibitors’). Purtroppo, solo il 20% circa dei pazienti risponde a tali strategie terapeutiche e non siamo ancora in grado di prevedere in maniera efficace quelli responsivi e quelli resistenti a tale terapia. In questo campo stiamo cercando di applicare, in collaborazione con il gruppo del professore Ceccarelli, lo stresso algoritmo diagnostico basato sullo studio della metilazione e frammentazione del DNA tumorale circolante. In relazione alla possibilità di diagnosticare micrometastasi linfonodali al momento dell’intervento chirurgico, abbiamo identificato un micro-RNA (piccolissimo RNA che non codifica per proteine), il miR449a, che, quando espresso a livello del tessuto tumorale a bassi livelli, è in grado di predire la presenza di micrometastasi linfonodali. Stiamo ora approfondendo la conoscenza del meccanismo con il quale tale microRNA è in grado di modulare i processi di invasione e metastatizzazione tumorale. In particolare, abbiamo rilevato che questo miRNA è in grado di deregolare processi infiammatori determinati dalla via di traduzione di interleuchina-6. Per quanto riguarda la diagnosi precoce del carcinoma della laringe, stiamo sviluppando un approccio basato sull’identificazione di una miRNA signature su sangue dei pazienti.

    Può spiegare al grande pubblico cosa si intende per caratterizzazione di signature di miRNA circolanti, al centro delle attività del suo Laboratorio?

    La possibilità di determinare un singolo miRNA, che specificamente può essere utilizzato per determinare la diagnosi e/o la prognosi di una neoplasia, è limitata dal fatto che il processo di trasformazione neoplastica è complesso e richiede la partecipazione di diverse alterazioni molecolari, con la conseguente deregolazione dell’espressione di diversi marcatori all’interno del tessuto tumorale. Pertanto, l’alterazione di un solo marcatore non è sicuramente e specificamente associata alla presenza di malattia. Su queste basi sono spesso richiesti l’identificazione e il dosaggio di una serie di marcatori che, insieme, costituiscono la cosiddetta ‘signature’, ovvero, in italiano, la firma molecolare della neoplasia. Tale firma molecolare si può poi associare alla diagnosi o alla prognosi della malattia. Anche nel caso dei microRNA la determinazione di come diversi micro-RNA sono deregolati in un tipo di cancro può aiutare a costruire una firma molecolare della malattia, permettendo di fare diagnosi precoce e di disegnare l’approccio terapeutico ottimale, sulla base della malignità predetta della neoplasia.

     

    Ci descrive i casi più emblematici di collaborazione con altre aree di ricerca di Biogem?

    Oltre alla già citata e consolidata intesa con il gruppo di bioinformatica del professore Ceccarelli, collaboriamo con il team della professoressa Concetta Ambrosino, nell’isolamento e caratterizzazione di singole cellule nervose in un modello zebrafish di malattia da danno mitocondriale. Con il gruppo di Nefrologia e con il suo fondatore e nostro direttore scientifico, Giovambattista Capasso, studiamo, invece, l’identificazione di miRNA circolanti in pazienti nefro-trapiantati, che sviluppano neoplasie. Reputo di particolare interesse quest’ultimo studio, in quanto punta all’identificazione di una signature di microRNA capace di predire lo sviluppo di neoplasia e il sito di origine delle stessa, in una popolazione ad alto rischio neoplastico, come quella con trapianto renale.
    Insieme al gruppo diretto dal professore Geppino Falco stiamo infine svolgendo esperimenti di isolamento di cellule singole da organoidi ottenuti da pazienti con carcinoma gastrico. Tale ricerca si pone l’obiettivo di effettuare studi funzionali su singole cellule derivate da organoidi e caratterizzate dal punto di vista molecolare con tecnologie di single cell (o nuclei) genome sequencing.

    E ci fa qualche esempio di approccio traslazionale delle sue attività di ricerca?

    Le nostre attività di ricerca hanno permesso di identificare 3 miRNA circolanti ad elevato potenziale diagnostico nei tumori della laringe e di identificare un algoritmo diagnostico nelle neoplasie umane che, attraverso l’utilizzo del sangue dei pazienti, ci consente di rilevare la presenza del tumore e la sua sede primitiva. Abbiamo inoltre identificato un microRNA (il miR423-5p), che può avere un ruolo terapeutico in diverse neoplasie umane, come il carcinoma della prostata ed il cancro epatico. Attualmente stiamo disegnando e sviluppando nanoparticelle in grado di veicolare il micro-RNA nel tessuto tumorale.

    La squadra è cresciuta, o almeno, si è ulteriormente consolidata.  Nel dettaglio, quali sono le ricerche di maggiore impegno condotte dai singoli ricercatori?

    Voglio ringraziare innanzitutto la dottoressa Marianna Scrima, che ha coordinato tutte le attività del laboratorio da me diretto (sia quelle diagnostiche COVID sia quelle di ricerca propriamente dette). Oltre a quelli già citati, gli altri progetti in corso nel laboratorio sono i seguenti:

    - Studio degli effetti dell’ipossia sulle caratteristiche genotipiche ed epigenetiche del mesotelioma umano (Dr. Marco Bocchetti, Dr.ssa Cinzia Graziano).

    - Caratterizzazione genotipica del melanoma sottile: impatto su prognosi e predizione di risposta (Dr.ssa Federica Melisi, dr.ssa Lucia Pasquale).

    - Studio del cross-talk tra micro-RNA e long non coding RNA nell’epatocarcinoma umano (Dr. Marco Bocchetti).

    - Caratterizzazione di un nuovo anticorpo diretto contro un antigene tumore specifico del mesotelioma umano (Dr. Marco Bocchetti).

    - Caratterizzazione degli effetti della radioterapia sull’espressione genica in cellule di glioblastoma (Dr.ssa Federica Melisi, dr.ssa Lucia Pasquale).

    - Studio della suscettibilità genetica alla cachessia neoplastica (Dr.ssa Lucia Pasquale).

    - Studio della suscettibilità genetica ed epigenetica alla infezione da SARS-Cov-2 (Dr.ssa Alessia Maria Cossu, Dr.ssa Clara Iannarone).

    Sottolineo infine, che, negli ultimi anni, al nostro team si sono aggiunti, rafforzandolo considerevolmente, diversi giovani ricercatori, come Marco Bocchetti e Alessia Maria Cossu, e dottorande di ricerca, come Federica Melisi, Piera Grisolia, Clara Iannarone e Cinzia Graziano.

     

    Ettore Zecchino

    Giuseppe Raucci

    Attualmente a capo del Laboratorio di Bioanalitica di Biogem, il dottore Giuseppe Raucci vanta una lunghissima esperienza presso il gruppo farmaceutico Menarini, inframezzata da percorsi di specializzazione in Italia e all’estero. Negli Stati Uniti, in particolare, ha avuto modo di approfondire le sue conoscenze ai più alti livelli.

    Dottore, il suo rapporto con Biogem si materializza in una fase avanzata della sua carriera. Da cosa ha avuto origine?

    Tutto è partito da una telefonata nel gennaio del 2019. In quel periodo avevo appena raccolto i risultati di una nuova strategia analitica per studi di farmacocinetica su anticorpi monoclonali e molecole derivate. In Biogem ho visto la possibilità di svolgere questa attività in un contesto con un superiore potenziale di sviluppo e questo mi ha fatto decidere per il cambio. Credo di aver visto giusto.

    Può spiegare a tutti in maniera semplice di cosa si occupa la farmacocinetica e cosa vuol dire ADME?

    Il nostro laboratorio si occupa di analisi su molecole di origine biologica e su farmaci. Questi ultimi vengono analizzati sia in forma pura sia in campioni di sangue (plasma) di animali a cui sono stati somministrati per una sperimentazione.

    La farmacocinetica di un farmaco è lo studio analitico che ne stabilisce il livello quantitativo nel plasma a partire dal momento della somministrazione fino a quando sparisce dal circolo sanguigno.

    Una volta somministrato, il farmaco si distribuisce nei tessuti e l’analisi quantitativa in questi distretti è la base per gli studi di biodistribuzione. Queste due fasi appena citate costituiscono l’assorbimento (fase “A”).

    Durante tutto questo processo, poi, il farmaco viene a contatto con una serie di enzimi che operano su di esso una serie di trasformazioni chimiche orientate alla sua eliminazione dall’organismo (in inglese, “drug metabolism”, da cui l’identificazione con la sigla “DM”).

    Infine, il farmaco ed i suoi prodotti di trasformazione (metaboliti) vengono allontanati dall’organismo attraverso specifiche vie di eliminazione (fase “E”).

    L’insieme di queste fasi costituisce gli studi ADME.

    Ci può parlare dei progetti attualmente in corso ed eventualmente di quelli in programma a Biogem?

    Stiamo completando lo studio su una molecola di una società italo-svizzera, di cui è apparsa la prima sperimentazione in vitro in una pubblicazione dello scorso anno sul bollettino dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, PNAS. La sua applicazione è nella terapia del cancro, e, alla luce dei risultati estremamente promettenti, sta procedendo velocemente verso la sperimentazione clinica.

    La nostra soddisfazione, oltre che nel far parte di uno studio importante, sta nell’essere riusciti a sviluppare della buona metodologia di spettrometria di massa ad alta risoluzione, con tutti i requisiti richiesti dalle Buone Pratiche di Laboratorio (BPL), oppure “Good Laboratory Practices” (GLP), secondo la definizione anglosassone.

    Le idee per il futuro sono diverse, ma la prospettiva più immediata è quella di estendere l’applicazione delle metodologie appena citate a molecole di complessità analoga o superiore, come ad esempio gli anticorpi monoclonali.

     

    Quanto deve alla Menarini nella sua evoluzione scientifica?

    Menarini è il posto dove ho costruito una bella fetta delle competenze scientifiche che ho portato in Biogem. Posso quindi dire che a Menarini devo tanto.


    Avverte come un peso la collocazione geografica di Biogem?

    La collocazione geografica di Biogem si potrebbe definire “periferica”, ma preferisco di gran lunga definirla “decentrata”. Non è un gioco di parole, perché il concetto di perifericità ha sempre meno senso dal punto di vista geografico, e, per quello che mi riguarda, la collocazione del nostro Istituto di sicuro non mi limita. In assoluto, sarei più preoccupato di una perifericità culturale o scientifica, ma non mi sembra un problema di Biogem.

    In questi giorni Silvio Garattini, tra le massime autorità patrie nel mondo della farmacologia, in un’intervista al quotidiano ‘Avvenire’, ha messo in guardia dall’utilizzo massiccio di integratori vitaminici, generalmente dalla dubbia efficacia.  
    Ritiene giusto sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema come questo? Come mai la gente ha tanta fiducia negli integratori e poca nei farmaci?

    Credo che queste due domande abbiano una radice comune e che abbiano un ruolo centrale in questa intervista.

    Penso che tutto abbia origine dalla tendenza dell’uomo del nostro tempo a confutare in maniera radicale, viscerale, dei fatti la cui oggettività era considerata lampante fino a poco tempo fa. Faccio l’esempio dei vaccini, una classe di farmaci che ha cambiato radicalmente gli esiti nefasti di alcuni autentici flagelli della specie umana. Nonostante ciò, oggi abbiamo i no vax.

    Ritengo che ciò derivi da una fragilità umana, culturale, dell’uomo contemporaneo, di fronte a cui non c’è evidenza scientifica che tenga.

    Si tratta di una “patologia”, la cui terapia è la ricerca di una conoscenza vera. Su questo aspetto credo che il Festival delle Due Culture abbia un’importanza centrale, ma si tratta di un processo che ha tempi lunghi (come lunghi tempi di incubazione ha avuto questa “patologia degenerativa“, in atto in maniera esplicita da almeno 30 anni) e non ha scorciatoie.


    Quale rapporto può esserci tra la ‘sua’ bioanalitica e la nutraceutica, ultimamente rafforzata a Biogem?

    Il rapporto tra bioanalitica e nutraceutica mi sembra abbastanza stretto, nel senso che il Laboratorio di Bioanalitica è ben disposto ed abbastanza attrezzato dal punto di vista culturale, ma anche scientifico e strumentale, a supportare il settore della nutraceutica.

     

    I vaccini innovativi utilizzati fino ad ora contro il COVID-19 si possono definire sicuri?
    Premesso che la sicurezza al 100% non esiste, la mia risposta è si. Aggiungo che lo sono stati sin dall’inizio, almeno in Occidente. In Europa, le autorità di controllo hanno infatti soltanto agevolato le tempistiche di sperimentazione ed i percorsi di autorizzazione, ma non hanno creato percorsi alternativi, scorciatoie non sperimentate e potenzialmente pericolose per la sicurezza.

     

    Il sistema di certificazione dei farmaci in Italia rientra negli standard occidentali più alti per qualità e affidabilità?

    Il nostro sistema di certificazione dei farmaci è completamente allineato con quello del resto dell’Unione Europea, a tutti i livelli, inclusi, naturalmente, gli standards di qualità ed affidabilità (oppure, per dirla con le tre parole chiave delle agenzie di controllo: qualità, sicurezza, efficacia).

     

    Secondo molti, l’industria farmaceutica italiana non si è più ripresa dal crollo di fine millennio. Intravede segnali di ripresa?

    Anche secondo me è andata così e non mi sembra di vedere grandi segnali di ripresa.

    Recentemente ho seguito le vicende di due società italiane che si occupano di prodotti innovativi ed hanno lavorato allo sviluppo di un vaccino per COVID-19: IRBM e Reithera.

    A grandi linee, IRBM ha sfruttato le sue grandi competenze sui vaccini adenovirali e grazie a queste ha dato un contributo determinante ad Astra-Zeneca e allo Jenner Institute di Oxford per la produzione di un ottimo vaccino.

    Reithera aveva invece un piano di sviluppo più dipendente dal settore pubblico italiano, crollato in seguito alle difficoltà di sperimentazione e per il quasi improvviso venire meno dell’apporto, anche finanziario, del settore pubblico.

    Rispetto a scenari di questo tipo, ho qualche difficoltà ad immaginare una ripresa del settore e a fare affidamento sul pubblico: oggi magari  mi sostiene, ma domani potrebbe cambiare idea in maniera poco prevedibile.

    A che punto siamo nel percorso verso i farmaci ‘personalizzati’?
    Sono già tra noi e l’esempio più vicino è quello della terapia con cellule CAR-T, sviluppato, tra gli altri, anche all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. E’ un tipo di terapia effettivamente rivoluzionario, che permette remissioni inimmaginabili in altra maniera. Ci tengo anche a dire che il Centro di Saggio ha una linea di collaborazione con il Bambin Gesù esattamente a supporto di questo grande progetto che, oltre ad essere di sviluppo terapeutico, è anche di sviluppo industriale.

    Quali passioni intellettuali e non coltiva l’uomo Raucci al di fuori del proprio laboratorio?

    Devo dire che l’uomo Raucci nell’ultimo periodo ha avuto qualche difficoltà a coltivare le sue passioni…. comunque, ce ne sono almeno due.

    Una è ascoltare musica, in particolare il rock della fine degli anni ’60, nel periodo dei movimenti giovanili, che si espresse con la “Summer of love” di San Francisco nel 1967 e con il festival di Woodstock qualche anno dopo. Ma c’è poi anche un inevitabile interesse per la musica classica.

    L’altra passione è la fotografia, nata verso la fine del 1986 negli U.S.A, principalmente per mostrare ai miei cari in Italia la mia quotidianità. Poi è diventata una modalità per imparare a guardare ed analizzare la realtà per come mi si pone davanti agli occhi.

    Oggi la cosa che mi piace di più è la “street photography”, il portare la macchina fotografica tra la gente e scattare.

    Si sente di consigliare qualcosa al direttore scientifico di Biogem?

    L’incremento progressivo dell’afflusso di commesse verso il Laboratorio di Bioanalitica sta mettendo in evidenza alcune differenze significative tra la ricerca applicata e la ricerca di base.
    Valorizzare queste differenze in un’ottica di complementarità credo che migliorerà l’esperienza di Biogem nel suo intero.
    E’ un punto che mi è già capitato di affrontare con il professore Capasso, di cui apprezzo molto l’apertura nei nostri confronti.

     

    Ettore Zecchino

    Giovambattista Capasso

    In occasione del conferimento del prestigioso Premio Gabriele Monasterio, conferitogli dalla Società Italiana di Nefrologia (SIN), il professore Capasso rivive con Biogem alcuni momenti salienti della sua vicenda umana e professionale.

    Professore, ci descrive le emozioni provate alla notizia di un riconoscimento così importante per la sua carriera?
    Quando, lo scorso Luglio, il Presidente della Società Italiana di Nefrologia, il professore Piergiorgio Messa, mi ha comunicato che il Consiglio direttivo della SIN, su sua proposta, mi aveva assegnato un premio alla carriera, individuandomi come il migliore nel campo della Nefrologia Innovativa, devo confessare che mi sono  sentito molto gratificato.  Senza alcun dubbio questo riconoscimento mi ripaga dei sacrifici di una vita.

    Ce li racconta?
    Nel momento in cui, tanti anni fa, mi sono approcciato alla nefrologia, questa era una disciplina relativamente giovane. Ho quindi assistito in prima persona alla sua crescita esponenziale, avvenuta nei decenni scorsi grazie alla creatività e curiosità di tanti colleghi che, per rispondere alle esigenze dei pazienti nefropatici, hanno allargato le conoscenze settoriali, contribuendo in modo sostanziale al progresso generale della medicina. Oggi riusciamo a prevenire molte malattie nefrologiche. A titolo di esempio, sappiamo come far rallentare la progressione della insufficienza renale cronica e abbiamo reso la dialisi una valida terapia sostitutiva, per non parlare dei rilevanti successi nel campo dei trapianti. In altre parole, i nefrologi hanno fatto sì che la ricerca si materializzasse in innovazione della prevenzione, diagnosi e terapia delle malattie renali. Queste considerazioni mi hanno riportato indietro di 50 anni, quando, giovane studente di medicina, bravo ma non secchione, ero alla ricerca della risposta a una domanda tipica in quel periodo della vita: cosa fare da grande? Avevo già avuto esperienze di internato in biochimica, patologia generale e farmacologia, ma nessuna di queste branche della medicina mi aveva particolarmente colpito, perché prive del contatto umano con il paziente. La mia grande passione era la neurologia, ma la frequentazione della corsia neurologica non fu per me esaltante, forse perché, a quel tempo, i confini tra la psichiatria e la neurologia non erano ancora ben delineati.

    Quindi, la nefrologia non fu il primo amore?
    Non proprio. Ero comunque attratto ed incuriosito dallo studio del rene (a quel tempo la nefrologia come disciplina clinica non si era ancora affermata) e mi ero interessato soprattutto alla parte fisiologica e al controllo del bilancio idro-elettrolitico ed acido-base. Mi parlarono, quindi, del professore Carmelo Giordano, un giovane assistente del grande fisio-patologo Flaviano Magrassi, che era da poco tornato dagli Stati Uniti e che si interessava di malattie renali. Decisi che dovevo conoscerlo.

    Un incontro, una svolta?
    Ricordo tutto di quella mattina, che, effettivamente, indirizzò tutta la mia vita professionale. Il suo studio era un ‘bugigattolo’ di pochi metri quadri. Per accedervi si passava attraverso una stanza-laboratorio in cui c’erano delle gabbie con dei topolini; in un angolo notai una sorta di frigorifero basso, con coperchio di vetro. Il professore Giordano era impegnato con la sua segretaria (una signora di media età, molto ‘british’) per cui, nell’attesa, scambiai qualche battuta con un collega, che armeggiava intorno ai topolini. Era il mai dimenticato Giuseppe Capodicasa. Domanda ovvia: perché questi ‘animalucci’ qui? Mi spiegò che il professore stava studiando l’effetto dei vari aminoacidi sul sistema immunologico, valutato con l’attecchimento del trapianto di cute. E quell’arnese che sembra un frigorifero? Serviva per studiare il metabolismo azotato delle marmotte durante il loro periodo di letargo. Rimasi affascinato!
    Il successivo, breve colloquio con Carmelo Giordano mi convinse ulteriormente che quella era la mia disciplina: avrei fatto il nefrologo. E così fu.

     
    E poi?
    Gli anni successivi furono sudatissimi, emozionanti, intensi. Tesi di laurea sperimentale con Natale De Santo che, nonostante un malcelato disappunto del professore, avevo scelto come tutor. Primo stage all’estero presso il ‘Max-Planck’ per la Biofisica di Francoforte dove, sotto la direzione di un gigante della fisiologia, il professore Karl Ullrich, imparai la tecnica della micropuntura renale, una metodologia sofisticatissima per lo studio della funzione del tubulo renale e pubblicai il mio primo lavoro scientifico (ancora oggi citato dalla letteratura).
    Segue il ritorno in Italia e l’organizzazione del laboratorio di micropuntura renale, sotto la guida di Natale (siamo stati insieme una vita intera). Poi, a causa della chiusura del Policlinico per il terremoto del 1980, che mi strappò gli affetti più cari, privandomi di gran parte della mia famiglia di origine, avendo vinto alcune delle più prestigiose borse di studio (Fulbright, Fogarty e Nato, scritte in una roulotte!) trascorsi insieme alla mia nascente famiglia un lungo periodo negli USA. 

    La passione per la ricerca l’ha quindi aiutata a superare un momento così tragico?
    Direi proprio di si. A New York frequentai il Dipartimento di Fisiologia e Biofisica dell’’Albert Einstein College of Medicine’, dove, sotto la guida di Rolf Kinne, appresi la metodologia per isolare le membrane delle cellule tubulari renali ed ero di casa al centro di Nefrologia Pediatrica, uno dei primi al mondo. In seguito, mi trasferii a New Haven, presso il Dipartimento di Fisiologia Cellulare e Molecolare della Yale University, dove, accanto ad uno dei più grandi fisiologi renali, Gerhard Giebisch, completai la mia preparazione sui meccanismi molecolari che regolano l’attività tubulare renale. Qui appresi i primi rudimenti della genetica funzionale, che allora stava nascendo, avendo sempre un contatto stretto con i colleghi nefrologi clinici. Alla Yale University ho pubblicato una serie di lavori sull’equilibrio acido-base che stanno resistendo “all’insulto del tempo”, segno inequivocabile che sono ancora validi, un metro di giudizio molto accettato nella comunità scientifica. L’esperienza americana fu arricchita dalla nascita di Anna (Nunu), la mia secondogenita, che portò una carica di gioia ed infinita tenerezza nella mia giovane famiglia.

    Un cervello in fuga?
    Assolutamente no. Al ritorno in Italia ho cercato di applicare nella pratica clinica quello che avevo imparato durante i lunghi anni trascorsi all’estero. Da qui la mia passione per le tubulopatie, un ramo della nefrologia che per molti colleghi è ancora un rompicapo, se non una rottura di scatole. Per me, invece, è sempre stato un impegno quotidiano, soprattutto quando si è trasformata in una compiuta disciplina clinica, grazie alla diagnostica genetica, insostituibile per la diagnosi, ed alla ingegneria genetica, utilissima per riprodurre in modelli animali le patologie umane a carattere ereditario. Questo cocktail tecnologico, traslato in clinica ed applicato a coorti di pazienti, è risultato veramente innovativo.

    Risale a quel periodo il primo contatto con l’Istituto che attualmente dirige?
    L’incontro con Biogem non poteva non avvenire in un momento più propizio. Gli spazi, le attrezzature ed il suo straordinario stabulario mi hanno permesso di creare un centro di ricerche in nefrologia di base che, insieme con l’Unità Operativa Complessa di Nefrologia della Vanvitelli, di cui nel frattempo ero diventato responsabile, formano uno straordinario Centro di Ricerca Nefrologico Traslazionale. Questo è provato dal fatto che, quando a livello europeo si è costituita la rete delle malattie rare, immediatamente è stato riconosciuto come centro di riferimento internazionale nel campo delle malattie rare nefrologiche (ERNKnet)

    E intanto si profilava un percorso parallelo?

    Proprio così. Nel 2012 sono stato eletto presidente della SIN (Società Italiana di Nefrologia), altra tappa fondamentale della mia carriera, che accademicamente è stata un po' tribolata e sofferta. In quella veste ho avuto compiti un po' diversi; ho dovuto pensare, in particolare, al ruolo della nefrologia nel rapporto con altre specialità, avendo sempre come obiettivo primario le esigenze del paziente.  Erano anni in cui i colleghi oncologi facevano progressi spettacolari e la malattia tumorale, da patologia d’organo, veniva ripensata come una malattia sistemica. Da qui la proposta che il malato oncologico andava seguito da una equipe di medici, tra i quali doveva esserci, necessariamente, il nefrologo. Del resto, numerosi studi hanno evidenziato come l’insufficienza renale sia un fattore di crescita del tumore. Devo dire, per la precisione, che la SIN è stata una delle prime società a sottolineare questa problematica, ribadita in un innovativo convegno internazionale, da me organizzato a Napoli. Da allora abbiamo cominciato a collaborare con i nostri colleghi oncologi ed abbiamo stipulato un accordo interaziendale con il più grande ospedale oncologico del meridione, la ‘Fondazione Pascale’, che ha istituzionalizzato la presenza, in qualità di consulente, di una collega nefrologa del mio gruppo.

    L’Italia di nuovo le stava stretta?
    Dopo l’esperienza nella SIN, sono stato eletto nel Consiglio direttivo della Società Europea di Nefrologia (ERA). Anche qui discussioni appassionate sui nuovi orizzonti della nefrologia, sempre in cerca di target innovativi clinici e terapeutici. Ho trasmesso ai colleghi dell’ERA Council la mia antica passione per le neuroscienze, convincendoli dell’assoluta necessità di collaborare con i neurologi che, nel frattempo, grazie all’introduzione delle nuove tecnologie di neuro-imaging, erano riusciti ad ‘aprire’ la scatola cranica, rendendo ‘visibili’ le funzioni delle varie circonvoluzioni cerebrali.
    Un dato molto solido, presente in letteratura, è la riduzione della capacità cognitiva dei pazienti nefropatici. Essa diventa generalizzata nei dializzati, anzi si accentua con il prolungarsi della terapia dialitica, portando molte di queste persone alla demenza. Tutto ciò legittima l’ipotesi che il rene sia indispensabile per una corretta capacità cognitiva. Per affrontare in modo scientifico una tematica così complessa bisognava assolutamente creare un gruppo interdisciplinare ed internazionale.


    E siamo alla stretta attualità?

    E già. Per questo abbiamo scritto un progetto, approvato con il massimo score dal programma COST di Horizon 2020. L’acronimo di tale progetto è CONNECT (Cognitive decline in Nephro-Neurology: an European Cooperative Target) e ne sono stato eletto coordinatore.
    Esso vede la partecipazione di oltre 100 ricercatori di varie discipline, provenienti da 27 Paesi europei, più gli Stati Uniti. Abbiamo già pubblicato una considerevole mole di lavori scientifici, generato nuove idee e progetti, organizzato tavole rotonde in diversi convegni per diffondere la problematica nella comunità scientifica.
    Biogem ha ospitato il primo incontro in presenza di questo network; è stato un grande successo, ribadendo il ruolo che questo centro di ricerca ha e potrà avere negli studi preclinici di CONNECT.


    In definitiva, a quali sue attività di ricerca attribuisce il conferimento di questo premio?
    Direi che i progetti in materia di tubulopatie con le malattie rare, quelli nel campo della nefro-oncologia e quelli nella nefro-neurologia probabilmente lo giustificano.

    Vuole ringraziare qualcuno in particolare?
    Queste idee non si sarebbero concretizzate se non fossi stato costantemente alla ricerca, durante la mia vita professionale, di compagni di viaggio, di allievi in grado di aiutarmi a mettere in pratica le intuizioni che ho avuto. Sono stato molto fortunato, e forse bravo. Negli anni ho costituito un gruppo che parla la stessa lingua, ha gli stessi obiettivi, condivide la stessa filosofia di vita: la ricerca alla base di tutto e la voglia di vedere applicate sul paziente quello che stavamo immaginando, sperimentando, studiando in modelli animali.
    E credo che sia un segno del destino se un pellegrinaggio a Lourdes mi abbia tolto la possibilità di ricevere personalmente questo premio, avendo contratto il COVID-19. Sono stato infatti ripagato da una gioia più grande, dal momento che la pergamena è stata ritirata, a nome del mio fantastico gruppo, da una delle mie più brave collaboratrici. Una felice conclusione per un altro capitolo di una vita appassionata ed intensa.

     

    Ettore Zecchino

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