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    Davide Viggiano

    Davide Viggiano

    Laureato in Medicina e Chirurgia presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, Davide Viggiano ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Morfologia Umana e Sperimentale e, successivamente, di specialista in Nefrologia. In seguito, è stato ricercatore di Fisiologia umana presso l’Università del Molise. Attualmente, è professore associato di Nefrologia presso l’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’.
    Autore di oltre 90 pubblicazioni su riviste internazionali, è nella lista dei Top Italian Scientists.
    Da qualche mese dirige, insieme al collega Francesco Trepiccione, il Laboratorio di Nefrologia Traslazionale di Biogem.

    Professore, cosa può dirci della sua esperienza passata a Biogem?
    Ho sentito parlare per la prima volta di Biogem circa 20 anni fa, durante il mio dottorato di ricerca in Anatomia. Le notizie che giravano nei laboratori che frequentavo facevano sognare ai giovani ricercatori di poter avere un giorno la possibilità di venire a lavorare in questo favoloso centro, super tecnologico e dotato di una delle più grandi ‘animal house’ del Meridione. Non avrei mai immaginato che 20 anni più tardi avrei avuto la opportunità di coronare questo sogno.

    Ci delinea i suoi programmi come coordinatore del Laboratorio di Nefrologia Traslazionale?
    Vorrei in primo luogo spiegare il significato di questa denominazione, che è di per sé un programma di ricerca molto ambizioso.
    ‘Nefrologia’ è lo studio dei reni, delle relative malattie, ma anche di tanti organi il cui funzionamento si altera a seguito di una malattia renale. E, per formazione, io presto attenzione al danno cerebrale a seguito delle malattie renali.
    ‘Traslazionale’ è invece il desiderio di non rimanere fermi al laboratorio, ma di avere un continuo dialogo con il mondo clinico. Tradurre cioè i problemi dei pazienti in esperimenti di laboratorio, e poi tornare a loro con queste nuove informazioni.
    Si tratta di un progetto ambizioso e difficile, ma è ciò che di più completo ha da offrire oggi la scienza.

    In particolare, a chi o a cosa risale questo nuovo approccio ‘neurologico’ alle patologie renali, fortemente seguito da Biogem?
    Questo curioso punto di contatto fra due temi così distanti, il rene e il cervello, nasce per una singolare coincidenza astrale. Più di dieci anni fa, dopo una vita di studi sul cervello, incontrai il professore Capasso, attuale Direttore Scientifico di Biogem, il quale mi fece notare che molti pazienti con malattie renali hanno problemi a ricordare di prendere i farmaci. Da questa osservazione casuale nacque un’interazione forte, che mi ha portato a divenire nefrologo, ma con un costante ‘focus’ sui problemi neurologici di questi pazienti.

    Dovremmo, quindi, dire il contrario?
    Certo, si pone il problema se è il rene a modificare l’attività del cervello o il contrario. In fin dei conti, quale organo non è controllato dal cervello? Io credo, però, che questa ‘cerebralizzazione’ del nostro corpo porti a dimenticare che quasi tutti gli organi finiscono per influenzare l’attività cerebrale. Un banale mal di stomaco, ad esempio, può rendere molto difficile la semplice attività del pensare!

    Tale evoluzione ha a che vedere con l’approccio traslazionale e multidisciplinare alla base della direzione Capasso?
    Precisamente. L’approccio traslazionale è una caratteristica del laboratorio guidato dal professore Capasso. Chi lavora al bancone del laboratorio non deve perdere di vista il paziente. Per questo noi teniamo molto a che tutti i collaboratori vengano anche in clinica, al fine di conoscere meglio la patologia che cercano, successivamente, di studiare in laboratorio. Allo stesso tempo, stimoliamo continuamente i medici a frequentare il laboratorio. Senza questa esperienza bilaterale si ingenerano facilmente distorsioni nella comunicazione tra ricercatori e medici, rischiando che questi ultimi non recepiscano compiutamente i risultati di tali studi.

    Allargando ulteriormente il campo di analisi, crede che la vocazione bi-culturale di Biogem potrà suggerirle nuovi approcci nella ricerca medica?
    Questo è un punto basilare. La scienza non è che una piccola branca della filosofia e la filosofia non è che una parte delle scienze umane. Una società che chiede una tremenda specializzazione agli scienziati, senza offrire loro alcuna possibilità di vedere dove si colloca, in questo ampio panorama culturale, il loro piccolo contributo, non può che avere una falsa impressione di crescita, mentre fallisce nel trovare i bersagli. Senza un approccio storico alla scienza si ripeteranno gli stessi esperimenti e si tornerà di continuo a usare le stesse teorie già scartate nel passato. Senza un approccio umanistico alla conoscenza si perde di vista il senso stesso delle proprie attività in laboratorio.
    Il colloquio con storici, filosofi, artisti, scrittori deve essere strutturale e non lasciato al caso.

    E in un’ottica ‘service’?
    Questo aspetto è altrettanto importante, anche se può ingenerare resistenze. Lo scienziato puro ritiene infatti che quel che fa non è qualcosa da dover vendere o di cui si debba percepire l’utilità immediata. Questo è vero un po’ in tutte le discipline, forse maggiormente nella matematica. Tali posizioni ‘pure’ dimenticano, tuttavia, che qualsiasi cosa si faccia nasconde una motivazione, e quest’ultima è, alla fine, molto vicina a quello che noi chiamiamo lo scopo della ricerca. Avere degli obiettivi chiari, come in un ‘service’, non trasforma la scienza in un processo ingegneristico, ma offre problemi reali da risolvere, puntando a trasformare in applicazioni pratiche le idee teoriche. Alcuni dei più grandi avanzamenti scientifici rispondono a un’ottica service, come l’implementazione del calcolatore, allo scopo di decifrare codici sempre più complessi.
     L’ottica service è molto spesso un punto di motivazione, piuttosto che un freno alla fantasia.

    Ci può fare qualche esempio?
    Certamente. Attualmente, nei nostri laboratori, abbiamo ricercatori impegnati a comprendere quali alterazioni cerebrali avvengono in presenza di una malattia renale. Questo è un approccio ‘puro’, una curiosità intellettuale. Nel dialogo con il clinico è tuttavia emersa la necessità di studiare alcuni sintomi neurologici comuni, come il tremore. Tale problema di tipo pratico, applicativo, ci ha portato a ideare un nuovo macchinario, in corso di brevettazione, che misuri il tremore nei pazienti con malattia renale e che sia di utilità al clinico.

    Quanto crede nella didattica all’interno di un centro di ricerca non universitario?
    E’ fondamentale. Il ricercatore deve imparare a trasferire le sue conoscenze ad altre persone. Che questo avvenga tramite informali incontri diretti, o con formali lezioni, poco importa. L’obbligo di trasferire le informazioni spinge il ricercatore a rivedere i propri dati, a spiegare meglio il motivo per cui fa certi esperimenti e ad interpretarne i risultati in modo critico. Tenere delle lezioni di fronte a una classe di allievi è forse un modo semplice, ben testato nei secoli, per obbligare i ricercatori a condividere, divulgare e criticare le proprie conoscenze e a formalizzare le proprie teorie. Quando insegna, il ricercatore è inoltre spinto ad aggiornarsi su un tema specifico, e questo gli permette di incasellare meglio la propria attività di ricerca.

    Un obiettivo concreto da raggiungere per il suo laboratorio?
    Scoprire come fermare il decadimento cognitivo nei pazienti con danno renale.

    Un limite da superare?
    L’egoismo e la tendenza all’isolamento. La ricerca richiede, invece, un continuo colloquio con altre menti.

    I suoi suggerimenti alla Direzione Scientifica?
    Sarebbe motivante per i giovani avere una bacheca in sughero dove appendere l’ultima propria pubblicazione scientifica. Questi ragazzi, infatti, lavorano tanto, e quando scrivono un articolo è giusto che lo condividano e che ne siano orgogliosi.

    Ettore Zecchino


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