I protagonisti delle due culture

    Gennaro Carillo

    Professore ordinario di Storia del pensiero politico all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove insegna anche Storia della tradizione classica e Storia della filosofia antica e medievale, ha scritto su Vico, Erodoto, Tucidide, i tragici, Aristofane, Platone (sul quale ha curato un numero monografico della rivista ‘Filosofia politica’), Balzac, Simone Weil. Ha lavorato sul mito classico e i suoi riusi moderni, in particolare sul tema mitico di Diana e Atteone. Approfondisce da tempo il rapporto fra politica e immagine. Condirettore artistico del festival SalernoLetteratura, è Consigliere d'amministrazione della Fondazione Premio Napoli e componente del Comitato scientifico della Fondazione Idis-Città della Scienza. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani: Il Mattino, Repubblica, il Corriere del Mezzogiorno, il Manifesto, il Foglio.

     

    Professore, le due categorie 'eterne' del politico sono progressismo e conservatorismo?

    Difficile parlare di categorie ‘eterne’. Tutto ciò che è storico è in continuo divenire, si trasforma. L’idea di progresso, secondo un’opinione non unanime tra gli studiosi, è un concetto tipicamente moderno. Eppure, elementi di un’idea ante litteram di progresso sono riscontrabili, per esempio, in un poeta-filosofo come Lucrezio. Peraltro, sia Atene sia Roma sono sempre state teatro di scontri fra innovatori e laudatores temporis acti o tradizionalisti: basti pensare alla polemica di Aristofane contro Euripide, responsabile di una corruzione tanto estetica quanto morale.

     

    Platone brillantissimo progressista, ma snob e antidemocratico, Aristotele conservatore e democratico?

    Più che progressista, Platone è radicale e rivoluzionario, perché non conosce mezze misure e non pensa che la politica possa essere modificata con piccole riforme. L’orizzonte di senso della politica deve, al contrario, essere radicalmente modificato, facendo tabula rasa dell’esistente. Condivido, invece, pienamente il suo giudizio sulla vocazione antidemocratica di Platone. Direi, anzi, che qualsiasi tentativo di conciliare Platone e la democrazia è votato allo scacco. Nemmeno Aristotele è particolarmente tenero nei confronti della democrazia, ma la sua critica è molto meno radicale. Peraltro, mentre per Platone il sapere politico è una scienza (parla proprio di episteme), per Aristotele, in politica come in tutti i campi dell’agire pratico, è vano ricercare una esattezza di tipo scientifico, dal momento che sono in gioco variabili come le passioni umane, contraddistinte da estrema incostanza. Aristotele ritiene che la politica richieda non scienza ma saggezza pratica, phronesis, un sapere che poggia su fondamenti più deboli, congetturali, ma che consente una maggiore elasticità rispetto alla mutevolezza delle situazioni contingenti.

     

    Da Pericle a Tocqueville il passo quanto è lungo?

    Direi lunghissimo. Parliamo di due idee di democrazia. Il nome è lo stesso, la ‘cosa’ è profondamente diversa. Nell’Atene di Pericle, il demo è una minoranza ristretta, ottenuta al prezzo di esclusioni molto dolorose, in primo luogo quella delle donne, e di una distinzione per noi inconcepibile, quella tra liberi e schiavi. Nell’orazione funebre per i caduti del primo anno di guerra del Peloponneso, Tucidide – un oligarca – attribuisce a Pericle una concezione della democrazia come regime della partecipazione e della mobilità sociale (almeno in linea teorica). Come Aristotele, Tocqueville pensa che la democrazia incarni il destino della politica. In questo, le diagnosi di entrambi si sono rivelate profetiche. Tocqueville coglie uno dei grandi problemi della democrazia di massa: il binomio apatia-individualismo. C’è il rischio concreto, nelle grandi democrazie, della disaffezione, della fuga dalla politica, del conformismo: che è il fenomeno cui da tempo stiamo assistendo, con una contrazione impressionante del numero degli elettori che esercitino effettivamente il proprio diritto di voto, oltre che con uno scadimento complessivo della qualità della democrazia (strettamente connessa al capitale sociale).

     

    Come si concilia l’elogio della partecipazione con il ricorso massiccio al sorteggio nella democrazia ateniese?

    Per Aristotele, il sorteggio è la procedura democratica per eccellenza di selezione del personale politico, in quanto presuppone l’uguaglianza – anzi l’intercambiabilità – di tutti i cittadini. L’elezione, viceversa, si configura come un criterio aristocratico, perché introduce un elemento di distinzione tra i cittadini. Ovviamente, quella di un corpo politico coerente al proprio interno è una grande illusione, un costrutto retorico. Non a caso, su di esso si fonda la critica che Platone indirizza alla democrazia: regime che si affida al caso nella scelta di chi governa la polis. Platone non è tenero neppure con l’oligarchia: forma di governo che seleziona i governanti alla cieca, facendo appello alla ricchezza, il cui dio – Pluto – è cieco. La ricchezza, come la nascita, non è un selettore politico valido. Il solo criterio giusto è la conoscenza.

    La democrazia ateniese fu un regime che cercò di allargare il più possibile la partecipazione. Il problema è che la stragrande maggioranza delle fonti superstiti è riconducibile ad autori antidemocratici o di esplicite simpatie oligarchiche. Il che rende opportuno guardare a queste fonti – ivi compreso Tucidide – col beneficio d’inventario. Per Tucidide, al tempo di Pericle, la costituzione ateniese di nome era una democrazia ma di fatto il governo era saldamente nelle mani del primo cittadino (ossia di Pericle). Non a caso, Lorenzo Valla, nel XV secolo, tradurrà questa perifrasi tucididea con una sola parola, molto eloquente: principatus. Un principato democratico, dunque. Tucidide ci racconta che, quando c’era da sospendere la democrazia, perché altrimenti le passioni del demo si sarebbero dimostrate ingovernabili, Pericle non si faceva pregare e imponeva che si decretasse una sorta di stato di eccezione, concentrando su di sé pieni poteri. In un dialogo attribuito a Platone, il Menesseno, la democrazia è definita come aristocrazia con il consenso della maggioranza.

     

    A proposito di Rinascimento e patriottismo a parte, Machiavelli è sopravvalutato?

    Assolutamente no. Profondo conoscitore degli antichi, Machiavelli si situa a cavallo tra pre-modernità e modernità e resta una chiave di comprensione di cruciale importanza. Il suo realismo politico, spostando di continuo l’angolo visuale e imponendoci uno sguardo multifocale sulla realtà, è un apporto di cui non si può fare a meno.

     

    Giovambattista Vico è, invece, sottovalutato?

    Come filosofo, Vico è senz’altro più originale di Machiavelli, che per di più filosofo non era né ambiva a essere. Il pensiero politico di Vico è per molti versi tributario di quello di Machiavelli, anche se questo debito non poteva essere dichiarato esplicitamente, trattandosi di un autore empio quant’altri mai. Ma Lucrezio, altro autore empio, è una presenza costante in entrambi. Altro denominatore comune il rapporto tra umanità e ferinità: sia per Vico, sia per Machiavelli, l’uomo è una creatura doppia, sulla quale incombe sempre lo spettro dell’imbestiamento, la possibilità di regredire a uno stato selvaggio.

     

    L’ultimo grande pensatore politico italiano?

    Direi Gramsci e Croce. A entrambi arride grande fortuna all’estero in questi anni.

     

    La democrazia è ‘aristotelicamente’ il ‘destino della politica’?

    Le avrei risposto di sì fino a qualche decennio fa. Ora sarei meno ottimista. Sia le oligarchie economiche, la presa del capitalismo finanziario sulla politica, sia le democrazie illiberali di questi ultimi anni (vere e proprie autocrazie, come le chiama Anne Applebaum) hanno eroso alle fondamenta molte delle garanzie democratiche. E il processo non accenna ad arrestarsi.

     

    Oggi in quale stadio degenerativo della democrazia ci troviamo?

    In uno stadio nel quale, per la prima volta da molti anni a questa parte, tutto sembra possibile. Certezze che credevamo granitiche si stanno sbriciolando. Una spallata violentissima è venuta dalla cosiddetta post-verità: l’orizzonte del discorso pubblico è segnato da una manipolazione costante, da strategie di propaganda raffinatissime che vanificano la linea di confine tra il vero e il falso. Hannah Arendt aveva messo in guardia contro questo esito. Ma la sua profezia è rimasta inascoltata.

     

    Superato Biden e attenuata la dittatura del politicamente corretto, la globalizzazione potrà crollare sotto i colpi inferti da Donald Trump?

    Non parlerei di dittatura ma semplicemente di eccessi – talora grotteschi – del politicamente corretto. Chi parla di dittatura in fondo sposa una tesi costruita ad arte da chi concepisce la libertà di parola come una licenza di sconfinare sia nel linguaggio d’odio (hate speech) sia nella menzogna seriale. Trump piace agli antiglobalisti – di sinistra come di destra – perché lo considerano un agente del caos e una figura estranea all’establishment. Agente del caos lo è di sicuro, ma è espressione dell’establishment. In Trump gli antiglobalisti vedono il profeta di un processo di ri-territorializzazione della politica. Di una politica di nuovo fondata su identità – e sovranità – forti. Di uno Stato inteso nuovamente come ordinamento territoriale sovrano. Di sicuro c’è che il termine ‘globalizzazione’ non è più idoneo a designare la realtà attuale. Abbiamo bisogno di un vocabolario nuovo.

     

    Azioni politiche come i dazi vanno interpretati come un’occasione, un passaggio dalla padella alla brace o una tragedia assoluta?

    Non avendo sufficienti competenze in economia, non saprei risponderle con la dovuta serietà. Mi sembrano una esibizione muscolare ad usum dell’elettorato trumpiano. Non a caso, Trump sta già facendo marcia indietro su molti versanti, dopo aver compreso che i dazi avrebbero penalizzato anche l’economia americana. Ciò non toglie che siamo di fronte ad armi di guerra commerciale che si sono sempre adottate. Quel che è certo è che richiederebbero una risposta univoca dell’Europa e non singole negoziazioni in ordine sparso.

     

    Le più grandi ideologie politiche del Novecento?

    Il comunismo, la grande illusione, che tuttavia ha incarnato la speranza di milioni di lavoratori. E il neoliberismo, vincente nel secondo Dopoguerra, ma che mostra segni evidenti di cedimento. Comunque, il comunismo è finito. La fine del capitalismo non si vede all’orizzonte. Come recita una battuta variamente attribuita: è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. A tal punto il capitalismo è arrivato a essere l’orizzonte di senso della nostra vita.

     

    Quali di queste sopravvivono oggi?

    Direi nessuna. Ma un pensatore come Marx resta un interprete formidabile non solo del suo tempo, avendo anche avuto delle intuizioni profetiche.

     

    Gode di maggiore salute l’idea di Europa o la sua ‘applicazione pratica’?

    Mi appaiono entrambe in pessima salute. L’ottima prova fornita durante il COVID, si è trasformata nel suo contrario in occasione della guerra in Ucraina. Comunque, non è il momento di baloccarci sul Titanic che sta affondando. L’intellettuale che certifichi – gongolando sotto sotto – la morte dell’Europa non offre nessuna risposta ai problemi concreti, fa solo bella figura negli orridi salotti televisivi. Dobbiamo tenerci stretta l’Unione Europea, ovviamente provando a migliorarla, svincolandola, ad esempio, dalla regola dell’unanimità in Consiglio su materie chiave.

     

    Quale futuro immaginare e costruire per l’Italia?

    Va assolutamente potenziato il capitale sociale, troppo scarso. Ne va della qualità della democrazia. Andrebbe finalmente riformata la Rai, che non può continuare a essere riserva di caccia delle maggioranze politiche, perché offra davvero un servizio pubblico. Va promossa la partecipazione. Ma oggi, con partiti ridotti o a oligarchie o a partiti personali, la vedo molto dura.

     

    Perché a Benedetto Croce riserva solo grande rispetto ma non ‘trasporto’ filosofico?

    Lo ritengo un classico. Non sono di formazione crociana. Ma questo non significa nulla e soprattutto non m’impedisce di cogliere in Croce un grande maestro di realismo politico.

     

    Come spiega l’adesione di singoli grandi intellettuali, solo a titolo di esempio, Giovanni Gentile in Italia, a fenomeni esplicitamente totalitari e culturalmente raramente sofisticati, come il fascismo mussoliniano?

    Gentile non fu il solo. Fu in ottima compagnia. All’inizio, nemmeno Croce comprese fino in fondo il pericolo costituito dal fascismo. In Germania, giganti come Carl Schmitt e Heidegger aderirono con convinzione al nazionalsocialismo. È la dimostrazione che la qualità intellettuale non si concilia necessariamente con la lucidità della visione politica. Nel caso di Heidegger, poi, incise anche un certo tatticismo, qualche miseria morale. I tempi di crisi rendono inservibili le categorie con le quali si è pensata la politica e allora si rischia di guardare con benevolenza ad avventure che poi si riveleranno tragiche negli esiti. 

     

    E all’opposto, la fascinazione intellettuale di massa per il ‘sofisticato’ orrore comunista?

    Il comunismo fu un’illusione ma anche una speranza. Come tutte le rivoluzioni, anche quella comunista era disposta a commettere o avallare qualsiasi nefandezza in nome dell’ideale. Il terrore è una sorta di effetto collaterale della rivoluzione. La fascinazione nasce dall’effetto di accelerazione del tempo storico che si accompagna a ogni fenomeno rivoluzionario. Quello che mi ha sempre fatto orrore del comunismo – di cui pure ho in parte subito, da ragazzo, la seduzione – è il dogmatismo, l’ortodossia religiosa. Nemmeno il glorioso Partito Comunista Italiano ne è stato immune. 

     

    La politica è una cosa troppo seria per lasciarla fare solo agli intellettuali?

    La parola ‘intellettuale’ a Giorgio Manganelli non piaceva affatto: la trovava burocratica, catastale…Oggi vedo in giro molte macchiette, molte contraffazioni dell’intellettuale. E soprattutto trovo immondo l’effetto-loop, l’eterna ripetizione dell’identico cui assistiamo nei talk. E non solo nei talk. La tribuna è occupata sistematicamente sempre dagli stessi, sempre più imbolsiti e prevedibili. Persino manifestazioni di per sé meritorie scadono a parate di solite facce che ormai hanno esaurito gli argomenti. Gli impresari di questo circo ignorano il danno che stanno facendo alla democrazia italiana.

     

    Quale deve essere il minimo sindacale di scienza e competenza per un politico?

    Il ‘cursus honorum’, cioè la lunga gavetta, oggi sostituita dal rapporto personale con il leader, che ama circondarsi di servi sciocchi che lo compiacciano, senza mai contrariarlo. Se unisci la cupiditas serviendi di chi vuol far carriera e la libido dominandi del capo, il risultato è quello che vediamo.

     

    La politica è davvero la tecnica delle tecniche di sofistica memoria?

    Ha a che fare sicuramente con la dimensione sofistica della persuasione, ma non può certo limitarsi a essa. Ci sono una buona persuasione e una cattiva persuasione. L’essenziale è che persuadere sia un mezzo e non un fine.

     

    Almeno da Socrate in poi ci si è posti in maniera scientifica il problema del rapporto tra etica e politica e il solito Aristotele lega in qualche modo la sua ‘Politica’ con l’’Etica Nicomachea’. Quali, a suo parere, le vette raggiunte dall’elaborazione culturale sul tema nella storia umana?

    Aristotele è un vertice, proprio perché vuole che si leggano insieme l’Etica – le Etiche, non solo la Nicomachea – e la Politica. Significa che la politica non può essere disgiunta dal grande tema delle virtù. Una in particolare mi sta a cuore, in questo momento: la temperanza. Ne sento la mancanza. Ne vedo la necessità.

     

    E la logica schmittiana della ‘necessità di un nemico’ e della politica come capacità di decidere nella situazione ‘eccezionale’?

    A questo incipit famoso di Schmitt, grandissimo pensatore, preferisco le Politiche dell’amicizia di Jacques Derrida. La philia ‘fa’ la politica, crea una relazione non autodistruttiva fra gli uomini. La mia idea di politica presuppone l’uscita dalla logica del nemico. 

     

    Esiste una possibile osmosi tra politica e religione o l’approccio laico è irrinunciabile sempre?

    C’è sempre una connessione e non c’è approccio più religioso di quello laico. Croce parla, ad esempio, di religione della libertà, mentre il marxismo è stato una sorta di religione e il comunismo la sua chiesa.

     

    Entro quali limiti la politica può non essere lo specchio della società?

    Due casi.

    Il primo è quando il leader ha il coraggio dell’impopolarità e di svolgere un’azione pedagogica nei confronti del demo. E questo è un modo potenzialmente virtuoso di non essere un mero specchio della società. Il demagogo, invece, asseconda le pulsioni della società, in qualunque direzione esse conducano. 

    Il secondo è quando la politica si rivela incapace di cogliere il mutamento sociale, quando la società è più avanti della politica. L’esempio più perspicuo è quello dei diritti civili.

     

    Dove e quando è nata la politica come scienza?

    Con Platone, che ne parla espressamente nel quarto libro della ‘Repubblica’, definendo la euboulia – l’attitudine alla buona deliberazione – una forma di episteme. Una scienza che coglie l’essere.

     

    Quanto e come la globalizzazione e i social hanno cambiato il concetto di politica e la sua declinazione pratica?

    La globalizzazione, anche etimologicamente, implica la trasformazione dello spazio politico, un processo di de-territorializzazione e vanificazione dei confini. I social sono il vettore del fenomeno – per me inquietante – della disintermediazione. Entrambi hanno condannato all’obsolescenza il nostro linguaggio politico, in ampia misura inservibile, ma anche il modo di fare politica. Aggiungerei: sempre più istrionico, teatrale…

     

    In particolare, non crede che il consenso popolare sia molto più manipolabile del passato, anche recente, mediante l’uso fraudolento delle sconfinate possibilità mistificatorie offerte dall’incalzante progresso tecnologico?

    Assolutamente sì, e, in quanto più manipolabile è anche più mutevole. Basti pensare alla volatilità dei consensi, a politici che – per dirla con Carlo Emilio Gadda – trascorrono da furore a cenere nello spazio di un mattino.

     

    L’Intelligenza Artificiale, che noi già appelliamo ‘timorosamente’ in maiuscolo, si autogovernerà prima o poi, magari cambiando le categorie politiche millenarie del genere umano?

    Questa è davvero una grande rivoluzione, dagli esiti incerti. Con l’IA si possono realizzare obiettivi fino a ieri impensabili e credo ci siano usi che miglioreranno, anzi stiano già migliorando, la forma di vita umana. Ci potranno tuttavia anche essere usi – abusi – che produrranno distorsioni non irrilevanti. In ogni caso, la grande filosofia greca ci ha insegnato che la dimensione artificiale è connaturata all’uomo, il quale non può stare al mondo senza sopperire alla propria scarsissima dotazione originaria (rispetto ad altri animali) senza ricorrere a oggetti tecnici e artefatti. E non dimentichiamo che ogni grande rivoluzione tecnologica è stata guardata con sospetto e attenzione, prima di essere ‘metabolizzata’. Pensiamo all’invenzione della stampa. 

     

    Ettore Zecchino

     
    Ernesto Galli della Loggia

    Professore emerito di Storia contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Scuola Normale di Pisa), Ernesto Galli della Loggia ha insegnato nelle Università di Siena, Perugia, e ‘Vita-Salute San Raffaele’ di Milano. Editorialista del ‘Corriere della Sera’, si è occupato specialmente di storia politica e culturale italiana dell’Otto-Novecento. Autore di numerosi saggi e libri, tra i quali: ‘La morte della patria’ (1996); ‘L’identità italiana’ (1998); ‘Tre giorni nella storia d’Italia’ (2010); ‘Credere, tradire, vivere’ (2016); ‘Speranze d’Italia’ (2018); ‘L’aula vuota’ (2019); 'Vite italiane' (2022); 'Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista' (2024).

     

    Professore, come ci si sente ad essere, ormai da oltre 30 anni, uno degli editorialisti di punta del ‘Corriere della Sera’, indubbiamente tra i più letti in Italia?

    Mi sento soprattutto un uomo libero di scrivere sempre ciò che pensa, forse proprio grazie a questo rapporto così risalente nel tempo, ma anche a causa della mia età, ormai venerabile.

     

    Diceva ‘qualcuno’ che un intellettuale, in fondo, non può non essere anche un opinionista. Condivide?

    Opinionista è una parola dal significato sfuggente. Nei Paesi di tradizione latina come il nostro, la Francia, la Spagna, gli intellettuali hanno un’antica consuetudine ad esprimersi sui giornali quotidiani (in Italia sin dall’Ottocento). Il fenomeno è forse meno diffuso nel mondo anglosassone, dove il dibattito ha luogo, preferenzialmente, sulle riviste culturali. Mi lasci in ogni caso osservare che la stessa patente di intellettuale andrebbe rilasciata con molta cautela. In molti casi sarebbe infatti preferibile parlare, più ‘semplicemente’, di professori universitari.

    Tra le varie tematiche da Lei approfondite si segnala quella dell’educazione scolastica in Italia. Non a caso, ha recentemente fatto parte di una Commissione di studiosi appositamente istituita dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Valditara. Si impone, dunque, una sua valutazione in merito alla riforma in corso.

    Devo premettere di aver fatto parte solo della commissione specificamente relativa ai programmi di storia e, quindi, di non conoscere quelli delle altre materie. Posso comunque affermare che la sola idea di procedere ad una revisione complessiva dei programmi scolastici, ormai datati, sia stata un’ idea giusta. La situazione critica in cui da tempo versa la scuola italiana – causa e insieme riflesso della crisi generale del Paese - richiedeva, tra molte altre cose, anche che si procedesse ad una revisione dei programmi scolastici, specialmente, se così posso dire, della loro impostazione pedagogico-culturale.
    Al netto di ciò, un giudizio serio potrà essere dato soltanto quando la riforma sarà completata e applicata. I programmi, infatti, sono un po' come il budino e la loro bontà si verifica soprattutto dopo averli provati.

     

    Perché, quindi, è così osteggiata?

    Perché in Italia la faziosità politico-ideologica è fortissima ed è assai raro che qualunque opposizione accetti un confronto serrato e intellettualmente onesto su qualsiasi contenuto proposto da qualunque governo. Parlerei di un vero e proprio handicap italiano, non certo limitato alla politica.

    Più in generale, quali modelli di istruzione scolastica da seguire può indicarci in Occidente?
    La scuola affonda, quasi per definizione, le sue radici nel profondo dell’esperienza nazionale e non si presta ad importazioni o esportazioni integrali. Qualche spunto lo si può certamente prendere qua e là, ma non molto di più.

     

    L’attuale crisi dell’Occidente deriva, in parte, anche dalla crisi dell’istruzione pubblica?
    Moltissimo, soprattutto per quanto concerne le classi dirigenti politiche, figlie, appunto, di questi sistemi scolastici in palese affanno. Il fenomeno, effettivamente comune a tutta l’area occidentale, appare particolarmente preoccupante in Italia, dove da decenni viene costantemente ristretto lo spazio riservato alle discipline  umanistiche, che, tuttavia, sono proprio quelle indiscutibilmente più congeniali a una formazione politica.

    Tornando per un attimo ai suoi esordi da docente di storia economica, ci può spiegare i dazi e la guerra mondiale commerciale dichiarata al mondo dal presidente Trump?

    Non sono assolutamente in grado di farlo e l’essermi occupato in gioventù di storia dell’economia italiana nel primo Novecento non mi conferisce alcuna autorevolezza in materia.

     

    Più in generale, cosa si aspetta dalla seconda presidenza di Donald Trump?

    Non so cosa aspettarmi. O meglio, mi sembra che ci sia da aspettarsi di tutto. La particolare volubilità dell’uomo scoraggia l’aspettativa in un disegno coerente, a parte l’accentuato nazionalismo, che molto mi preoccupa. Dal 1917 gli Stati Uniti hanno avuto un approccio democratico alle vicende internazionali e l’attuale torsione nazionalista non può non turbarci.

     

    E i rapporti dello stesso Trump con l’uomo più ricco del mondo?

    A bizzarria si somma bizzarria. Anche Elon Musk è infatti un grande punto interrogativo, forse più problematico dello stesso Trump. Non escluderei, peraltro, che tra i due potessero in futuro sorgere degli attriti o magari qualcosa anche di più grave. A proposito di cultura politica sono convinto, inoltre, che quella di Musk sia prossima allo zero.

    La sua unica esperienza politica attiva si è svolta a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, nell’ambito di un movimento referendario e riformista, orientato, tra l’altro, a ridimensionare i partiti. L’esperienza fu fallimentare, ma i partiti novecenteschi, in Italia, sono comunque tutti scomparsi in pochissimo tempo. Ci regala una sintetica analisi di quei giorni?

    Con diversi amici, sotto ‘l’alto patronato’ del grande giurista Massimo Severo Giannini, mi candidai alle elezioni politiche del 1992, in una lista che creammo insieme, ispirata al movimento referendario in corso. La nostra ‘squadra’ raccoglieva persone dalla formazione eterogenea, saldate dalla consapevolezza della deriva patologica che ormai stava travolgendo il sistema dei partiti. Percepivamo l’avvicinarsi di una crisi generale, e, quindi, di una sorta di ‘liberi tutti’ rispetto ai vincoli che nei decenni quei partiti avevano pure stabilito con l’opinione pubblica del Paese. Crisi che effettivamente ci fu, ma la successiva ricomposizione del quadro politico fu, in un certo senso, assolutamente ‘forzata e artificiale’.  A mio avviso, è mancata un’evoluzione politica del Partito comunista in un partito socialdemocratico e della Democrazia cristiana  in un partito cristiano liberal-conservatore. I cattolici in particolare, si sono liquefatti, in molta parte accettando ‘supinamente’ l’egemonia dei post-comunisti. Di qui, il berlusconismo come diga contro ‘la gioiosa  macchina da guerra” occhettiana e, di conseguenza, l’instradamento della Seconda Repubblica su una via che non mi sembra particolarmente densa di risultati.

     

    Perché in altre nazioni europee le culture e i partiti non comunisti hanno ‘retto’ molto meglio?

    Sono sopravvissute, in realtà, le forze di tipo moderato e liberale, che, a differenza dei socialdemocratici, non hanno risentito con uguale gravità della crisi economica strutturale continentale, che ha gravemente ridotto i margini per l’attuazione di qualunque politica redistributiva. Una situazione destinata a peggiorare, immagino, con il ritorno delle spese militari (prima della Seconda Guerra Mondiale intorno al 8-10% del bilancio dei Paesi europei), a causa dell’ormai conclamato disimpegno statunitense. In un certo senso, il capitalismo non appare  più quella ‘pecora da tosare’ di un tempo. O, come minimo, produce meno lana.

     

    Il suo percorso ‘elettorale’ è stato sempre particolarmente dinamico. Lo ripercorriamo brevemente insieme?

    Dinamico é un gentile eufemismo per mutevole? Ebbene sì, è proprio così. Ho votato fino alle regionali del 1975 per il Partito Comunista, pur non essendo mai stato realmente comunista. Per fugare il rischio di un Pajetta ministro dell’Interno, nel 1976 votai per il Partito Radicale e da allora per lungo tempo ho votato radicale o mi sono astenuto. Oggi ho qualche rimpianto di non aver mai votato per il Psi di Craxi. Nel 1992 ho sperato nel Partito Popolare Italiano e una volta anche in Berlusconi. Ho più volte fatto pubblica ammenda per essere stato, nel 2022, un elettore dei Cinque Stelle, rivelatosi immediatamente un movimento inadeguato alle sfide che aveva baldanzosamente lanciato. Perché l’ho fatto? Perché mi illudevo, appunto, che i 5stelle potessero avvicinare quell’obiettivo che da molto tempo sono convinto debba essere il nostro principale obiettivo, essendo quello da cui dipendono tutti gli altri, vale a dire il cambiamento del sistema politico italiano. Il programma del Governo Meloni, ad esempio, ha alcuni punti, come la separazione delle carriere dei magistrati o il consolidamento del potere del Presidente del consiglio, che mi trovano d’accordo. Ovviamente, bisognerebbe mettere mano a tanto altro. Penso, in particolare, alla crisi della rappresentanza, da molti anni svilita da sistemi elettorali utili solo ai segretari di partito. 
    In generale, direi che non sono mai stato interamente fedele ad un partito perché non ne ho mai trovato uno all’altezza delle necessità profonde del Paese. Mi lasci, infine, sottolineare la non commendevole difficoltà di molti ‘intellettuali’ a ‘confessare’ i propri percorsi politici e la parsimonia delle incursioni giornalistiche in questa parte, pur fondamentale, del loro privato.

     

    Le sue ‘profezie’ più rilevanti?
    Mi sono sempre astenuto dal farle. Rivendico, invece, ma lo faccio per celia, intendiamoci, la paternità di alcuni neologismi di un certo successo nella comunicazione politica in Italia, quali ‘partito di plastica’ e ‘cespugli’.

     

    E gli errori di valutazione?

    Non pochi. Il più clamoroso quello sui Cinque Stelle di cui sopra. Del resto, in compagnia di tantissimi italiani.

     

    Quali politici del passato, italiani e non italiani, hanno maggiormente destato il suo interesse?

    Direi Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo, due miei interessi relativamente recenti. Solo in occasione della crisi della Prima Repubblica ho infatti cominciato ad approfondire la storia politica del mondo cattolico e da allora non ho mai smesso.

     

    La Democrazia Cristiana ha tradito Sturzo?
    Senz’altro: in parte anche consapevolmente e forse perché non poteva che essere così. Ma ancora più gravemente lo stanno tradendo alcuni storici cattolici, con la loro pretesa di dipingerlo come un cattolico-democratico. Sturzo aveva, invece, un imprinting decisamente liberale e ad esempio, era un feroce critico di molte parti della Costituzione. Aveva inoltre ammonito tutti, profeticamente, sui rischi della deriva partitocratica, denunciati già nei primi anni del Dopoguerra. Per ricordare solo un altro tema di rilievo, era allergico all’invadenza statale in economia.

    Il mondo dei social ha certamente condizionato pesantemente le dinamiche dell’apprendimento e del consenso, anche in politica. Solo negativamente?

    Si, non ho alcun dubbio.

    Un discorso simile si potrebbe fare in merito all’’ideologia’ del politicamente corretto?

    Certamente, anche se in modi molto diversi. Torniamo alla sinistra che non ha voluto più essere socialdemocratica e che, come sentenziava il preveggente Augusto Del Noce con riferimento al Partito Comunista Italiano, ha preferito diventare un partito radicale di massa, zelante apostolo del politicamente corretto.

     

    Cosa si aspetta dall’avanzata apparentemente inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale?

    Nulla di buono. Sono tentato dal dire che nei confronti dell’Intelligenza artificiale mi sento un luddista!

     

     

    Ettore Zecchino

     

     

     

     

     

    Giovanni Villani

    Ricercatore del CNR dal 1988, si è occupato principalmente di chimica quantistica, sia sviluppando e applicando nuove metodologie di chimica computazionale sia studiando la dinamica quantistica in sistemi di interesse biologico e, in particolare, nel DNA. Si è sempre interessato alle problematiche connesse agli aspetti generali-culturali e didattici della chimica. Ha pubblicato, tra l’altro, circa 150 lavori su riviste internazionali e 6 libri generali sulla chimica (in larga parte accessibili al sito https://cnr-it.academia.edu/GiovanniVillani). A ciò si aggiungono diverse pubblicazioni in rete, alcune delle quali di notevole successo (oltre 100mila visualizzazioni).
    Già presidente della Divisione Didattica della Società Chimica Italiana (SCI), è oggi coordinatore del Gruppo Interdivisionale “Epistemologia e Storia della Chimica” e vicedirettore della rivista ‘La Chimica nella scuola’. Ha organizzato convegni e corsi sulle problematiche culturali in ambito chimico, collaborando con istituzioni scientifiche pubbliche e private internazionali. Ha partecipato ad eventi di divulgazione scientifica, come il Festival della Scienza di Genova, il Festival della Chimica di Potenza, Pianeta Galileo della Regione Toscana, Street Science (L’Aquila), oltre che ad attività culturali di molti musei scientifici.


    Dottore, la sua prestigiosa carriera ha avuto come costante caposaldo il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Lo fa conoscere meglio ai nostri lettori?

    Il CNR è il più grosso Ente di Ricerca italiano, ma nonostante questo, è ampiamente sottodimensionato rispetto, per esempio, al quasi omonimo ente francese, il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) in un rapporto di 1/5 per ricercatori e tecnologi a tempo indeterminato. Il CNR è articolato in sette dipartimenti, a cui afferiscono un centinaio di istituti, raggruppati in aree di ricerca. È quindi evidente che la situazione specifica dei ricercatori del CNR è molto variegata e, conseguentemente, ha poco senso parlarne in generale. Dal mio particolare punto di osservazione, ho potuto notare, negli ultimi anni, una riduzione dei fondi ordinari per i ricercatori e la limitazione dell’assegnazione di risorse ai soli progetti specifici e applicativi. Anche la multidisciplinarietà, che era una caratteristica degli istituti del CNR, si è ormai ridotta. 

     

    Alla ricerca ha spesso affiancato un’attività didattica per le scuole e per il grande pubblico. In Italia l’insegnamento pre-universitario della ‘sua’ chimica può considerarsi in salute?

    Accanto alla ricerca attiva in chimica, mi sono sempre occupato anche degli aspetti filosofici e storici di questa disciplina, che, secondo me, dovrebbero costituire un “patrimonio” personale di ogni chimico. Per molti docenti e per chi lavora nella scuola e nelle università, invece purtroppo, tali aspetti non sempre sono ritenuti fondamentali. Questa situazione mi ha portato ad avvicinarmi alla didattica e a lavorare, ormai da decenni, nei corsi di aggiornamento degli insegnanti in servizio e in quelli di formazione per i nuovi docenti. La didattica della chimica, come quella di tutte le discipline scientifiche, è attualmente insegnata in modo principalmente trasmissivo. Difficilmente, quindi, si fa apprezzare al discente il percorso storico, la conquista filosofica/culturale e la passione e creatività degli scienziati, alla base della ricerca scientifica.   

     

    E quello universitario?

    L’insegnamento universitario si muove su un binario strettamente tecnico. Credo che gli atenei italiani, ancora al top per l’insegnamento prettamente scientifico, siano invece carenti nello sviluppare gli aspetti generali, “la cornice in cui inquadrare” le conoscenze scientifiche. Non casualmente, molti studenti considerano ‘’arido’’ l’insegnamento della chimica.

     

    Quali sono le ‘scuole’ più prestigiose?

    In Italia non c’è una singola scuola di chimica più prestigiosa e/o punto di riferimento per le altre. Nel tempo e nello spazio ogni singola università ha sviluppato maggiormente determinate problematiche chimiche e si è, per così dire, “specializzata”. Per esempio, quando sono arrivato al Dipartimento di Chimica di Pisa, nel 1986, ho trovato una quantità e qualità di chimici quantistici che non era presente altrove. Oggi, probabilmente, non è più così.

     

    Ci regala una comparazione con il resto del mondo, non solo occidentale?

    Lo stesso discorso vale anche per la chimica nel mondo. All’inizio del XX secolo la nazione portante era la Germania, poi il primato è passato agli Stati Uniti e oggi si sta sviluppando ampiamente anche una chimica cinese.

     

    Marie Curie, forse il più grande scienziato di genere femminile di tutti i tempi, era più una fisica o una chimica?

    Maria Skłodowska, poi Curie, dopo il matrimonio con Pierre Curie, è una figura di scienziato, senza declinazione di genere, tra le più note e affascinanti anche fuori dall’ambito strettamente intellettuale e accademico. Credo che anche noi chimici dovremmo rivalutarla come parte integrante della nostra comunità. Non casualmente, Marie Curie ha vinto un Premio Nobel per la Fisica e uno per la Chimica. 

     

    Non tutti ricordano che lo scrittore Primo Levi era uno stimato chimico. Cosa ci può dire al riguardo?

    Primo Levi è noto come scrittore e solo parzialmente come chimico e questo sebbene non manchino suoi libri molto vicini alla chimica (come 'Il sistema periodico') e nonostante la chimica sia presente, praticamente, in ogni sua opera. Levi, nella sua eccezionalità, può essere considerato un buon esempio della storica separazione tra la cultura scientifica e quella umanistica (le famose “due culture”) e del tentativo recente di riunificarle. La sua opera è infatti considerata un anello di congiunzione tra questi mondi, il superamento di una separazione per lui priva di senso. Alcuni anziani chimici torinesi mi hanno tuttavia riferito che, mentre era in vita, Levi non era “tanto considerato e presente” all’interno del Dipartimento di Chimica del capoluogo piemontese. Era uno scrittore, un chimico dell’industria, non un “accademico”.

     

    Quali prospettive intravede per la coabitazione delle due culture?

    Credo che l’attuale situazione scientifica vada evolvendo verso una maggiore integrazione delle due culture e un piccolo esempio personale può chiarire il concetto. Quest’anno la Società Chimica Italiana si è infatti “munita di un nuovo strumento” di lavoro, il Gruppo Interdivisionale di Epistemologia e Storia della Chimica, per il quale sono stato eletto coordinatore. Fino a poco tempo fa, il termine epistemologia era considerato molto negativamente dagli scienziati. Oggi fa invece parte dell’organigramma della comunità dei chimici.

     

    Ci può fare qualche altro esempio?

    Ce ne sarebbero tanti. Attingendo ancora al mio percorso biografico, posso sottolineare di far parte, da chimico, del Collegio di Dottorato di Pisa/Firenze in Filosofia. Un piccolo, ma non trascurabile esempio di contatto tra i due mondi, residuale solo fino a poco tempo fa.

     

    Di Giulio Natta noi italiani sappiamo, mediamente, pochissimo.  Davvero è il padre della plastica?

    Giulio Natta dovrebbe essere conosciuto dalle persone colte perché è l’unico chimico italiano insignito del Premio Nobel e uno dei pochissimi scienziati del nostro Paese destinatario di questo onore. In realtà, è poco noto e, per di più, il suo nome, essendo spesso associato alla plastica, ha assunto, nel tempo, un’accezione non sempre positiva. Natta, in effetti, ha scoperto e brevettato alcuni catalizzatori per ottenere delle plastiche con caratteristiche “sorprendenti”. Per fare un discorso semplice e accessibile a tutti, questi catalizzatori consentono la ‘’costruzione’’ di un polimero molto ordinato, i cui pezzi sono disposti tutti nello stesso modo, conferendo proprietà speciali alle relative sostanze.

     

    Un’invenzione senza più futuro?

    Non saprei dirlo, ma, certamente, le sostanze che la stanno sostituendo sono configurabili anch’esse come “plastiche”, pur se biodegradabili dai batteri e, quindi, meno inquinanti.

     

    Quale ruolo ha la chimica nell’attuale, travolgente sviluppo delle scienze bio-genetiche e bioinformatiche?

    Il rapporto della chimica con la biologia e con la medicina ha una lunga storia. Anch’io me ne sono occupato sia con lavori specialistici sia con libri generali. Tale rapporto si è dimostrato particolarmente efficace per la natura stessa della spiegazione chimica, per “composizione” più che per “leggi di natura”. Oggi, la chimica costituisce il “linguaggio” preferenziale della biologia, della farmacologia e della medicina e ha portato scientificità in queste discipline percorrendo una strada diversa rispetto a quella matematica, seguita dalla fisica.

     

    E nella meccanica quantistica?

    Anche il rapporto della chimica con la fisica, e in particolare quello con la meccanica quantistica, è ampiamente consolidato. Per fare un esempio, oggi svolgo ricerche considerate parte della chimica quantistica perché utilizzo i modelli e i calcoli della meccanica quantistica al fine di capire e interpretare problemi sperimentali chimici.

     

    Prima di Mendeleev e della sua Tavola degli Elementi, cos’era la chimica?

    Oggi la Tavola Periodica di Mendeleev è l’immagine chimica più conosciuta, quasi la sua icona. Non c’è un posto in cui si faccia della chimica in cui manchi tale immagine appesa al muro. La sua prima versione è del 1869, ma non si deve pensare che sia stata una cesura, uno spartiacque per la chimica dell’Ottocento. Prima di tale Tavola, infatti, erano già stati fatti altri tentativi di dare un “senso di gruppo” agli elementi, mentre quella che utilizziamo oggi è intrisa di meccanica quantistica, inesistente all’epoca di Mendeleev.

     

    A proposito, che c’è di vero in merito alla natura quasi ‘soprannaturale’ della scoperta di Mendeleev?

    Tutte le scoperte scientifiche importanti sono state “mitizzate” e la Tavola Periodica di Mendeleev non ha fatto eccezione. Queste “storie” ad esse legate sono storicamente false, ma possono ‘’motivare gli studenti’’.

     

    Il piccolo chimico è uno dei giochi più popolari da decenni. Come mai non genera molti adulti appassionati?

    I giochi scientifici, come il piccolo chimico, hanno svolto, e possono ancora svolgere, un ruolo di motivazione per i giovani. Il fatto che, nonostante ciò, la chimica sia considerata “poco appassionante” lo possiamo legare alla sua ‘’immagine sociale’’, al suo legame con l’inquinamento. In realtà, la chimica odierna ha sviluppato una notevole attenzione alle problematiche ambientali e rappresenta lo strumento principale per combattere scientificamente l’inquinamento. L’alternativa a quest’azione utile della chimica è un astorico ritorno ad un mitico passato.

     

    Generalmente, cosa scoraggia e cosa appassiona della sua disciplina scientifica?

    Un ostacolo alla diffusione della chimica è la sua mancanza di generalizzazioni di facile comprensione o che, quanto meno, lascino vagare la fantasia. Non c’è nella chimica né l’evoluzione delle specie viventi della biologia né lo spazio curvo e l’antimateria della fisica. Il lavoro del chimico, tuttavia, dovrebbe appassionarci non poco, se riflettiamo sul fatto che consiste nel lavorare con le molecole senza vederle. Queste, infatti, sono “oggetti” così piccoli che una goccia d’acqua ne contiene mille miliardi di miliardi, un numero talmente grande da configurarsi come inimmaginabile. Eppure, lavorando con questi “minuscoli oggetti”, il chimico riesce a “costruire sostanze” essenziali in molti prodotti che usiamo comunemente.

     

    L’umanità quanto deve alla chimica?

    La chimica è la più “pratica” delle discipline scientifiche. Molti autori hanno mostrato che noi tutti abbiamo interazioni con la chimica da quando ci svegliamo, di mattina, e ci laviamo i denti con il dentifricio, fino a quando andiamo a letto, a fine giornata, vestendo pigiami sintetici. E questa considerazione, che vale anche quando siamo in salute, acquista maggiore rilevanza quando ricorriamo a sostanze chimiche per curarci.

     

    E Giovanni Villani?

    Devo tanto alla chimica. Ho giocato con il “piccolo chimico”, mi sono appassionato a questa disciplina per la sua profondità e duttilità e, infine, ho avuta la fortuna di poter lavorare nel suo ambito di ricerca, riflettendo sui suoi concetti chiave. Per me la chimica è stata, ed è ancora oggi, a distanza di decenni, oltre che un lavoro, un hobby.

     

    Ettore Zecchino

    Donato Antonio Grasso

    Professore ordinario di zoologia, biodiversità animale, etoecologia e sociobiologia all’Università di Parma, ha fatto parte del direttivo della Società Italiana di Etologia e ha guidato la sezione italiana dell’International Union for the Study of Social Insects. Membro dell’Accademia Nazionale Italiana di Entomologia, è nel direttivo della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica. Studia il comportamento e l’ecologia degli insetti (soprattutto formiche) e si occupa di ecologia forestale e urbana e di ‘citizen science’. Per Adelphi ha tradotto ‘Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica’ (1997-rist.2020) e ha curato la revisione de ‘Il Superorganismo’ (2011). È autore de ‘Il formicaio intelligente - Come vivono e che cosa possono insegnarci i più sociali tra gli insetti’ (2018, Zanichelli) e di ‘Etologia. Lo studio del comportamento animale’ (2022, Utet Università).

     

    Professore, le discipline da Lei studiate e insegnate non sono messe bene a fuoco da tutti. Ci definisce la zoologia, l’etologia e l’entomologia?

    La zoologia è lo studio scientifico degli animali ed è la scienza madre, nella quale sono comprese l’etologia, incentrata sul comportamento degli animali (e, in realtà, anche di noi umani) e l’entomologia, che, come suggerisce direttamente la sua etimologia, è, specificamente, lo studio degli insetti.

     

    E i suoi riferimenti?

    Per la zoologia, partirei da Aristotele e poi dai grandi studiosi del mondo romano, come Lucrezio Caro e Plinio il Vecchio, arrivando, grazie a un percorso bimillenario in compagnia di famosi scienziati europei che sarebbe troppo lungo elencare, al grande Charles Darwin. Cioè a colui che ha posto le basi della modernità anche per quanto riguarda le scienze zoologiche.

    In ambito etologico citerei, invece, figure cardine quali Konrad Lorenz, Nikolaas Tinbergen e Karl Ritter von Frisch, insieme Premi Nobel nel 1973 e fondatori dell’etologia moderna, della quale hanno fissato i canoni.

    Riguardo all’entomologia, e, in particolare, allo studio di comportamento, ecologia e socialità, il mio principale riferimento è Edward O. Wilson, con i suoi straordinari studi sulle formiche e non solo.

     

    In Italia?

    Limitandomi all’etologia, ricorderei quattro figure importanti, espressioni di altrettante scuole universitarie. Mi riferisco a Leo Pardi, fondatore della disciplina a Firenze, a Floriano Papi (Pisa), a Mario Zanforlin, di formazione psicologica (Padova) e a Dànilo Mainardi (Parma), quest’ultimo mio grande maestro e molto conosciuto anche al grande pubblico per i suoi libri e le numerose trasmissioni televisive a cui per molti anni ha preso parte. Senza dimenticare colui che mi ha introdotto e guidato nello studio della sociobiologia degli insetti, Francesco Le Moli, professore a Parma e allievo di Mainardi.

     

    La scuola leader nel mondo oggi?

    Storicamente, le scuole importanti sono quasi sempre state quelle angloamericane e centroeuropee. Oggi, direi che l’ampia diffusione della nostra disciplina nel mondo ha prodotto un livellamento verso l’alto. Possiamo sicuramente affermare che l’Italia ha una solida tradizione alle spalle e un buon presente in ambito internazionale.

     

    Cosa si intende per ‘citizen science’?

    Si intende la scienza ‘partecipata’ dal cittadino, il cui contributo diventa fondamentale nei singoli passaggi della scoperta scientifica. Una scienza partecipata (dallo studente, come dal semplice appassionato) rende il cittadino un ‘presidio’ permanente, soprattutto nella raccolta dei dati, consentendo di rinvenire molte più informazioni sparse nello spazio e nel tempo di quante potrebbero essere raccolte dai soli ricercatori professionisti. Un valore aggiunto non da poco, che si aggiunge a quello intrinseco della collaborazione, cruciale per ogni attività di ricerca e qui particolarmente esaltato. In più, nel ‘fare scienza’ in questo modo, il cittadino si alfabetizza in materia, diventando meno vulnerabile alle fake news. I progetti di ‘citizen science’, che oltre ad affrontare temi di biologia ed ecologia, vanno dall’archeologia all’astronomia, devono, tuttavia, essere rigorosamente ‘organizzati’ e devono fondarsi sul metodo scientifico. In etologia, tale innovazione ha prodotto brillanti risultati e, personalmente, ho all’attivo diversi progetti di questo tipo.

     

    In ambito universitario quali differenze di approccio coglie tra l’Italia e gli altri Paesi culturalmente ‘leader’ nel mondo?

    Come per molte altre discipline, registro, nel nostro Paese, una maggiore solidità dell’insegnamento teorico rispetto a quello pratico, forse, almeno in parte, anche come conseguenza di notevoli carenze finanziarie, e, quindi, infrastrutturali. Siamo più ‘robusti’ culturalmente, ma meno avvezzi al ‘problem solving’ pratico. Non a caso, i nostri studenti, trapiantati all’estero, dopo una iniziale fase di rodaggio nei settori ‘operativi’, riescono a far valere appieno la loro formazione accademica, suscitando, spesso, grande ammirazione.

     

    Quale impatto specifico hanno avuto, nelle materie da Lei studiate, gli ultimi sviluppi della biologia computazionale e quelli, non solo intravisti, dell’Intelligenza Artificiale?

    Gli approcci computazionali stanno dando dei risultati molto interessanti, soprattutto relativamente allo studio delle relazioni sociali tra gli insetti, che oggi possono essere monitorabili automaticamente e ininterrottamente. Modellizzazioni e simulazioni sono infatti utilissime per comprendere meglio il comportamento degli animali, come, relativamente alle formiche, ho avuto modo di mostrare nel corso del mio seminario alle ‘2ue Culture’ di Biogem. La biologia computazionale e l’ingegneria informatica ci consentono, ad esempio, di sperimentare autentiche forme di biomimetica, realizzabili anche grazie a una sofisticatissima robotica, simulatrice o relazionata con animali veri. Si tratta, in generale, di una modalità di osservazione che ci consente di integrare al massimo livello possibile quella ‘naturale’.

     

    Quando e come è nata la sua passione per le formiche?

    Fin da bambino sono stato attratto da tutti gli animali, soprattutto dalle forme più nascoste, neglette e spesso repulsive per i più, da <<quelle piccole cose che governano il mondo>>, per dirla con il grande Edward O. Wilson. Sono rimasto, quindi, affascinato da queste realtà parallele, misteriose ‘galassie’, situate sulla terra e, per di più, a pochi centimetri da me. A Parma, poi, ho trovato un terreno particolarmente fertile grazie proprio a Dànilo Mainardi e a Francesco Le Moli.

     

    Quali animali ha studiato più approfonditamente?

    Le formiche, considerate come insetti sociali per antonomasia e per me modelli di studio dei diversi aspetti della biologia animale. Grazie a loro, ho viaggiato in lungo e in largo negli studi, spaziando dalla biologia alla genetica, dall’istologia alla chimica e a diverse altre branche delle scienze naturali. Attualmente, ci stiamo occupando anche degli insetti saproxilici, cioè quelli che riciclano il legno morto (soprattutto coleotteri) e di alcuni impollinatori molto interessanti e di rilevante valenza ecologica e conservazionistica (ricordiamoci che non ci sono solo le api).

     

    Condivide, come primo approccio a questo mondo, quello imperante Disneyano?

    Lo trovo tendenzialmente errato, anche se funzionale ad avvicinare i bambini, che devono, quindi, essere prontamente immessi su un binario più scientificamente corretto.

     

    Quando sono comparse sulla Terra le prime formiche?

    Fossili particolarmente ben conservati di formiche in ambra risalgono a circa 100 milioni di anni fa, ma si tratta già di formiche operaie. Questo vuol dire che la storia sociale di questi insetti era già cominciata da tempo. Sulla base di evidenze anche molecolari si parla di circa 130-150 milioni di anni fa.

     

    Ci descrive il tipo di comunicazione che ha luogo tra loro?

    Fondamentalmente è di tipo chimico ed è basato sulla trasmissione di informazioni tramite feromoni. Le formiche sono considerate delle piccole fabbriche ambulanti di sostanze chimiche, utilizzate anche per la comunicazione. Non mancano, comunque, altre forme di comunicazione, come quelle vibrazionali, conseguenti all’emissione di stridulazioni, in larga parte trasmissibili attraverso il substrato corporeo.

     

    Esemplari di specie diverse si capiscono tra loro?

    Ci sono alcuni elementi della comunicazione chimica in qualche modo riconoscibili anche da più specie e determinati dall’emissione di specifiche molecole. Ad esempio, alcune sostanze d’allarme sono comuni tra alcune specie e quindi veicolano potenzialmente la stessa informazione. Gli individui appartenenti a diverse specie hanno odori che li contraddistinguono. In alcuni casi è stata riscontrata la possibilità che questa marcatura specifica venga riconosciuta non solo come elemento di mera diversità dalla propria, ma anche come ‘codice’ identificativo proprio di quella specie ben precisa (ad esempio, un acerrimo nemico), in modo da ispirare un comportamento adeguato. Bisogna precisare che questi casi non sono ascrivibili ad una vera comunicazione tra le parti ma indicano semplicemente che qualche elemento del sistema comunicativo è simile per convergenza evolutiva o è stato intercettato a proprio vantaggio. 

     

    E l’interazione con i vegetali e con altre specie animali?

    Con il mondo vegetale è massima. Moltissime specie di formiche, infatti, intrattengono relazioni strette (persino vere e proprie simbiosi) con le piante, dalle quali, ad esempio, ricavano cibo o rifugio, offrendo in cambio la protezione da animali fitofagi o da agenti patogeni, questi ultimi sconfitti grazie alle sostanze antifungine e/o antibiotiche prodotte da queste straordinarie fabbriche chimiche viventi. Si tratta di temi a me molto cari e che affronto direttamente nelle mie ricerche. Altre formiche, attratte da un premio alimentare contenuto nei semi di alcune specie, li raccolgono ma, mangiata la parte attrattiva, li lasciano, disperdendoli nel terreno e consentendo alle piante di ‘spostarsi’ in altri luoghi.

    Esempi di relazioni mutualistiche più o meno strette con altri animali sono quelle che alcune specie di formiche intrattengono con alcuni afidi (i cosiddetti pidocchi delle piante) e con le cocciniglie (anch’esse parassite delle piante, a volte molto dannose). Si tratta di insetti produttori della melata, una sostanza di scarto per loro ma utile all’alimentazione delle formiche, che difendono i loro fornitori dall’attacco di predatori e parassiti. In questi casi spesso, ma non sempre, le formiche favorendo i parassiti delle piante danneggiano, seppur, indirettamente, queste ultime. Bisogna stare, tuttavia, attenti a trarre semplicistiche conclusioni dal momento che è sempre necessario valutare quali specie sono coinvolte nelle relazioni e il bilancio netto dei danni e dei benefici derivanti da queste interazioni.

     

    Cosa ha imparato dalle formiche il genere umano?

    Tantissimo! Dagli algoritmi ricavati dai loro sistemi organizzativi alla chimica da loro prodotta e da noi ricercatori approfonditamente studiata. Come esseri umani non riusciamo ancora, invece, ad essere collaborativi in maniera non egoistica, come fanno, al massimo grado, le formiche.

     

    Quale tipo di intelligenza si può attribuire a questi piccoli insetti?

    Dispongono di un’intelligenza individuale non trascurabile, alla base di una loro notevole capacità percettiva, ma anche di una discreta capacità nella gestione delle informazioni e di diversi tipi di apprendimento. Sono, inoltre, in grado di modificare il proprio comportamento e possono usare degli strumenti. La loro vera, insuperabile forza, rimane, tuttavia, l’intelligenza di sciame, ovvero quelle proprietà emergenti che derivano dalle attività collettive coordinate e che permettono al sistema di risolvere problemi complessi e acquisire capacità di molto superiori alla somma di quelle singole che la compongono.

     

    E un’anima?

    Credo, appunto, che esista una sorta di ‘’anima collettiva”, riferibile all’intera colonia.

     

    Come e dove si manifesta il lato ‘umanistico’ della sua professione?

    Le rispondo citando una frase di Edward O. Wilson che, in una mail inviatami qualche anno fa, ripetendo un concetto già espresso altre volte in pubblico e nei suoi libri, scriveva che <<lo scienziato ideale lavora come un contabile, ma pensa come un poeta>>. E la meraviglia nei confronti del mondo è effettivamente la stella polare della mia attività scientifica. Percepisco, inoltre, la grande importanza, per uno ‘scienziato della natura’, di discipline quali la storia, la filosofia, la letteratura. Aver partecipato alle ‘2ue Culture’ di Biogem ha, quindi, assecondato una mia tendenza e una mia profonda attitudine.

     

    Cosa pensa della polemica, ormai carsica, sulla gastronomia futura, incentrata sugli insetti?

    Sicuramente è un ambito da esplorare e da approfondire. D’altra parte, nel mondo ci sono già due miliardi di mangiatori di insetti, fornitori di sostanze nutritive indispensabili per gli abitanti di Paesi geograficamente lontani da noi e non solo. Come anche per altri alimenti, possono esserci rischi nel loro consumo (allergeni, pratiche scorrette di allevamento), e, quindi, occorre un alto livello di prudenza, oltre a un approccio solidamente scientifico. Si tratta, comunque, di una novità ineludibile a cui guardare con fiducia sia da un punto di vista nutrizionale sia per le implicazioni nel contesto della sostenibilità ambientale. Da non considerare, ovviamente, come la panacea di tutti i mali, ma neppure da demonizzare.

    Ettore Zecchino

     

     

     

     

     

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