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Professore emerito di Storia contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Scuola Normale di Pisa), Ernesto Galli della Loggia ha insegnato nelle Università di Siena, Perugia, e ‘Vita-Salute San Raffaele’ di Milano. Editorialista del ‘Corriere della Sera’, si è occupato specialmente di storia politica e culturale italiana dell’Otto-Novecento. Autore di numerosi saggi e libri, tra i quali: ‘La morte della patria’ (1996); ‘L’identità italiana’ (1998); ‘Tre giorni nella storia d’Italia’ (2010); ‘Credere, tradire, vivere’ (2016); ‘Speranze d’Italia’ (2018); ‘L’aula vuota’ (2019); 'Vite italiane' (2022); 'Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista' (2024).
Professore, come ci si sente ad essere, ormai da oltre 30 anni, uno degli editorialisti di punta del ‘Corriere della Sera’, indubbiamente tra i più letti in Italia?
Mi sento soprattutto un uomo libero di scrivere sempre ciò che pensa, forse proprio grazie a questo rapporto così risalente nel tempo, ma anche a causa della mia età, ormai venerabile.
Diceva ‘qualcuno’ che un intellettuale, in fondo, non può non essere anche un opinionista. Condivide?
Opinionista è una parola dal significato sfuggente. Nei Paesi di tradizione latina come il nostro, la Francia, la Spagna, gli intellettuali hanno un’antica consuetudine ad esprimersi sui giornali quotidiani (in Italia sin dall’Ottocento). Il fenomeno è forse meno diffuso nel mondo anglosassone, dove il dibattito ha luogo, preferenzialmente, sulle riviste culturali. Mi lasci in ogni caso osservare che la stessa patente di intellettuale andrebbe rilasciata con molta cautela. In molti casi sarebbe infatti preferibile parlare, più ‘semplicemente’, di professori universitari.
Tra le varie tematiche da Lei approfondite si segnala quella dell’educazione scolastica in Italia. Non a caso, ha recentemente fatto parte di una Commissione di studiosi appositamente istituita dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Valditara. Si impone, dunque, una sua valutazione in merito alla riforma in corso.
Devo premettere di aver fatto parte solo della commissione specificamente relativa ai programmi di storia e, quindi, di non conoscere quelli delle altre materie. Posso comunque affermare che la sola idea di procedere ad una revisione complessiva dei programmi scolastici, ormai datati, sia stata un’ idea giusta. La situazione critica in cui da tempo versa la scuola italiana – causa e insieme riflesso della crisi generale del Paese - richiedeva, tra molte altre cose, anche che si procedesse ad una revisione dei programmi scolastici, specialmente, se così posso dire, della loro impostazione pedagogico-culturale.
Al netto di ciò, un giudizio serio potrà essere dato soltanto quando la riforma sarà completata e applicata. I programmi, infatti, sono un po' come il budino e la loro bontà si verifica soprattutto dopo averli provati.
Perché, quindi, è così osteggiata?
Perché in Italia la faziosità politico-ideologica è fortissima ed è assai raro che qualunque opposizione accetti un confronto serrato e intellettualmente onesto su qualsiasi contenuto proposto da qualunque governo. Parlerei di un vero e proprio handicap italiano, non certo limitato alla politica.
Più in generale, quali modelli di istruzione scolastica da seguire può indicarci in Occidente?
La scuola affonda, quasi per definizione, le sue radici nel profondo dell’esperienza nazionale e non si presta ad importazioni o esportazioni integrali. Qualche spunto lo si può certamente prendere qua e là, ma non molto di più.
L’attuale crisi dell’Occidente deriva, in parte, anche dalla crisi dell’istruzione pubblica?
Moltissimo, soprattutto per quanto concerne le classi dirigenti politiche, figlie, appunto, di questi sistemi scolastici in palese affanno. Il fenomeno, effettivamente comune a tutta l’area occidentale, appare particolarmente preoccupante in Italia, dove da decenni viene costantemente ristretto lo spazio riservato alle discipline umanistiche, che, tuttavia, sono proprio quelle indiscutibilmente più congeniali a una formazione politica.
Tornando per un attimo ai suoi esordi da docente di storia economica, ci può spiegare i dazi e la guerra mondiale commerciale dichiarata al mondo dal presidente Trump?
Non sono assolutamente in grado di farlo e l’essermi occupato in gioventù di storia dell’economia italiana nel primo Novecento non mi conferisce alcuna autorevolezza in materia.
Più in generale, cosa si aspetta dalla seconda presidenza di Donald Trump?
Non so cosa aspettarmi. O meglio, mi sembra che ci sia da aspettarsi di tutto. La particolare volubilità dell’uomo scoraggia l’aspettativa in un disegno coerente, a parte l’accentuato nazionalismo, che molto mi preoccupa. Dal 1917 gli Stati Uniti hanno avuto un approccio democratico alle vicende internazionali e l’attuale torsione nazionalista non può non turbarci.
E i rapporti dello stesso Trump con l’uomo più ricco del mondo?
A bizzarria si somma bizzarria. Anche Elon Musk è infatti un grande punto interrogativo, forse più problematico dello stesso Trump. Non escluderei, peraltro, che tra i due potessero in futuro sorgere degli attriti o magari qualcosa anche di più grave. A proposito di cultura politica sono convinto, inoltre, che quella di Musk sia prossima allo zero.
La sua unica esperienza politica attiva si è svolta a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, nell’ambito di un movimento referendario e riformista, orientato, tra l’altro, a ridimensionare i partiti. L’esperienza fu fallimentare, ma i partiti novecenteschi, in Italia, sono comunque tutti scomparsi in pochissimo tempo. Ci regala una sintetica analisi di quei giorni?
Con diversi amici, sotto ‘l’alto patronato’ del grande giurista Massimo Severo Giannini, mi candidai alle elezioni politiche del 1992, in una lista che creammo insieme, ispirata al movimento referendario in corso. La nostra ‘squadra’ raccoglieva persone dalla formazione eterogenea, saldate dalla consapevolezza della deriva patologica che ormai stava travolgendo il sistema dei partiti. Percepivamo l’avvicinarsi di una crisi generale, e, quindi, di una sorta di ‘liberi tutti’ rispetto ai vincoli che nei decenni quei partiti avevano pure stabilito con l’opinione pubblica del Paese. Crisi che effettivamente ci fu, ma la successiva ricomposizione del quadro politico fu, in un certo senso, assolutamente ‘forzata e artificiale’. A mio avviso, è mancata un’evoluzione politica del Partito comunista in un partito socialdemocratico e della Democrazia cristiana in un partito cristiano liberal-conservatore. I cattolici in particolare, si sono liquefatti, in molta parte accettando ‘supinamente’ l’egemonia dei post-comunisti. Di qui, il berlusconismo come diga contro ‘la gioiosa macchina da guerra” occhettiana e, di conseguenza, l’instradamento della Seconda Repubblica su una via che non mi sembra particolarmente densa di risultati.
Perché in altre nazioni europee le culture e i partiti non comunisti hanno ‘retto’ molto meglio?
Sono sopravvissute, in realtà, le forze di tipo moderato e liberale, che, a differenza dei socialdemocratici, non hanno risentito con uguale gravità della crisi economica strutturale continentale, che ha gravemente ridotto i margini per l’attuazione di qualunque politica redistributiva. Una situazione destinata a peggiorare, immagino, con il ritorno delle spese militari (prima della Seconda Guerra Mondiale intorno al 8-10% del bilancio dei Paesi europei), a causa dell’ormai conclamato disimpegno statunitense. In un certo senso, il capitalismo non appare più quella ‘pecora da tosare’ di un tempo. O, come minimo, produce meno lana.
Il suo percorso ‘elettorale’ è stato sempre particolarmente dinamico. Lo ripercorriamo brevemente insieme?
Dinamico é un gentile eufemismo per mutevole? Ebbene sì, è proprio così. Ho votato fino alle regionali del 1975 per il Partito Comunista, pur non essendo mai stato realmente comunista. Per fugare il rischio di un Pajetta ministro dell’Interno, nel 1976 votai per il Partito Radicale e da allora per lungo tempo ho votato radicale o mi sono astenuto. Oggi ho qualche rimpianto di non aver mai votato per il Psi di Craxi. Nel 1992 ho sperato nel Partito Popolare Italiano e una volta anche in Berlusconi. Ho più volte fatto pubblica ammenda per essere stato, nel 2022, un elettore dei Cinque Stelle, rivelatosi immediatamente un movimento inadeguato alle sfide che aveva baldanzosamente lanciato. Perché l’ho fatto? Perché mi illudevo, appunto, che i 5stelle potessero avvicinare quell’obiettivo che da molto tempo sono convinto debba essere il nostro principale obiettivo, essendo quello da cui dipendono tutti gli altri, vale a dire il cambiamento del sistema politico italiano. Il programma del Governo Meloni, ad esempio, ha alcuni punti, come la separazione delle carriere dei magistrati o il consolidamento del potere del Presidente del consiglio, che mi trovano d’accordo. Ovviamente, bisognerebbe mettere mano a tanto altro. Penso, in particolare, alla crisi della rappresentanza, da molti anni svilita da sistemi elettorali utili solo ai segretari di partito.
In generale, direi che non sono mai stato interamente fedele ad un partito perché non ne ho mai trovato uno all’altezza delle necessità profonde del Paese. Mi lasci, infine, sottolineare la non commendevole difficoltà di molti ‘intellettuali’ a ‘confessare’ i propri percorsi politici e la parsimonia delle incursioni giornalistiche in questa parte, pur fondamentale, del loro privato.
Le sue ‘profezie’ più rilevanti?
Mi sono sempre astenuto dal farle. Rivendico, invece, ma lo faccio per celia, intendiamoci, la paternità di alcuni neologismi di un certo successo nella comunicazione politica in Italia, quali ‘partito di plastica’ e ‘cespugli’.
E gli errori di valutazione?
Non pochi. Il più clamoroso quello sui Cinque Stelle di cui sopra. Del resto, in compagnia di tantissimi italiani.
Quali politici del passato, italiani e non italiani, hanno maggiormente destato il suo interesse?
Direi Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo, due miei interessi relativamente recenti. Solo in occasione della crisi della Prima Repubblica ho infatti cominciato ad approfondire la storia politica del mondo cattolico e da allora non ho mai smesso.
La Democrazia Cristiana ha tradito Sturzo?
Senz’altro: in parte anche consapevolmente e forse perché non poteva che essere così. Ma ancora più gravemente lo stanno tradendo alcuni storici cattolici, con la loro pretesa di dipingerlo come un cattolico-democratico. Sturzo aveva, invece, un imprinting decisamente liberale e ad esempio, era un feroce critico di molte parti della Costituzione. Aveva inoltre ammonito tutti, profeticamente, sui rischi della deriva partitocratica, denunciati già nei primi anni del Dopoguerra. Per ricordare solo un altro tema di rilievo, era allergico all’invadenza statale in economia.
Il mondo dei social ha certamente condizionato pesantemente le dinamiche dell’apprendimento e del consenso, anche in politica. Solo negativamente?
Si, non ho alcun dubbio.
Un discorso simile si potrebbe fare in merito all’’ideologia’ del politicamente corretto?
Certamente, anche se in modi molto diversi. Torniamo alla sinistra che non ha voluto più essere socialdemocratica e che, come sentenziava il preveggente Augusto Del Noce con riferimento al Partito Comunista Italiano, ha preferito diventare un partito radicale di massa, zelante apostolo del politicamente corretto.
Cosa si aspetta dall’avanzata apparentemente inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale?
Nulla di buono. Sono tentato dal dire che nei confronti dell’Intelligenza artificiale mi sento un luddista!
Ettore Zecchino
Ricercatore del CNR dal 1988, si è occupato principalmente di chimica quantistica, sia sviluppando e applicando nuove metodologie di chimica computazionale sia studiando la dinamica quantistica in sistemi di interesse biologico e, in particolare, nel DNA. Si è sempre interessato alle problematiche connesse agli aspetti generali-culturali e didattici della chimica. Ha pubblicato, tra l’altro, circa 150 lavori su riviste internazionali e 6 libri generali sulla chimica (in larga parte accessibili al sito https://cnr-it.academia.edu/GiovanniVillani). A ciò si aggiungono diverse pubblicazioni in rete, alcune delle quali di notevole successo (oltre 100mila visualizzazioni).
Già presidente della Divisione Didattica della Società Chimica Italiana (SCI), è oggi coordinatore del Gruppo Interdivisionale “Epistemologia e Storia della Chimica” e vicedirettore della rivista ‘La Chimica nella scuola’. Ha organizzato convegni e corsi sulle problematiche culturali in ambito chimico, collaborando con istituzioni scientifiche pubbliche e private internazionali. Ha partecipato ad eventi di divulgazione scientifica, come il Festival della Scienza di Genova, il Festival della Chimica di Potenza, Pianeta Galileo della Regione Toscana, Street Science (L’Aquila), oltre che ad attività culturali di molti musei scientifici.
Dottore, la sua prestigiosa carriera ha avuto come costante caposaldo il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Lo fa conoscere meglio ai nostri lettori?
Il CNR è il più grosso Ente di Ricerca italiano, ma nonostante questo, è ampiamente sottodimensionato rispetto, per esempio, al quasi omonimo ente francese, il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) in un rapporto di 1/5 per ricercatori e tecnologi a tempo indeterminato. Il CNR è articolato in sette dipartimenti, a cui afferiscono un centinaio di istituti, raggruppati in aree di ricerca. È quindi evidente che la situazione specifica dei ricercatori del CNR è molto variegata e, conseguentemente, ha poco senso parlarne in generale. Dal mio particolare punto di osservazione, ho potuto notare, negli ultimi anni, una riduzione dei fondi ordinari per i ricercatori e la limitazione dell’assegnazione di risorse ai soli progetti specifici e applicativi. Anche la multidisciplinarietà, che era una caratteristica degli istituti del CNR, si è ormai ridotta.
Alla ricerca ha spesso affiancato un’attività didattica per le scuole e per il grande pubblico. In Italia l’insegnamento pre-universitario della ‘sua’ chimica può considerarsi in salute?
Accanto alla ricerca attiva in chimica, mi sono sempre occupato anche degli aspetti filosofici e storici di questa disciplina, che, secondo me, dovrebbero costituire un “patrimonio” personale di ogni chimico. Per molti docenti e per chi lavora nella scuola e nelle università, invece purtroppo, tali aspetti non sempre sono ritenuti fondamentali. Questa situazione mi ha portato ad avvicinarmi alla didattica e a lavorare, ormai da decenni, nei corsi di aggiornamento degli insegnanti in servizio e in quelli di formazione per i nuovi docenti. La didattica della chimica, come quella di tutte le discipline scientifiche, è attualmente insegnata in modo principalmente trasmissivo. Difficilmente, quindi, si fa apprezzare al discente il percorso storico, la conquista filosofica/culturale e la passione e creatività degli scienziati, alla base della ricerca scientifica.
E quello universitario?
L’insegnamento universitario si muove su un binario strettamente tecnico. Credo che gli atenei italiani, ancora al top per l’insegnamento prettamente scientifico, siano invece carenti nello sviluppare gli aspetti generali, “la cornice in cui inquadrare” le conoscenze scientifiche. Non casualmente, molti studenti considerano ‘’arido’’ l’insegnamento della chimica.
Quali sono le ‘scuole’ più prestigiose?
In Italia non c’è una singola scuola di chimica più prestigiosa e/o punto di riferimento per le altre. Nel tempo e nello spazio ogni singola università ha sviluppato maggiormente determinate problematiche chimiche e si è, per così dire, “specializzata”. Per esempio, quando sono arrivato al Dipartimento di Chimica di Pisa, nel 1986, ho trovato una quantità e qualità di chimici quantistici che non era presente altrove. Oggi, probabilmente, non è più così.
Ci regala una comparazione con il resto del mondo, non solo occidentale?
Lo stesso discorso vale anche per la chimica nel mondo. All’inizio del XX secolo la nazione portante era la Germania, poi il primato è passato agli Stati Uniti e oggi si sta sviluppando ampiamente anche una chimica cinese.
Marie Curie, forse il più grande scienziato di genere femminile di tutti i tempi, era più una fisica o una chimica?
Maria Skłodowska, poi Curie, dopo il matrimonio con Pierre Curie, è una figura di scienziato, senza declinazione di genere, tra le più note e affascinanti anche fuori dall’ambito strettamente intellettuale e accademico. Credo che anche noi chimici dovremmo rivalutarla come parte integrante della nostra comunità. Non casualmente, Marie Curie ha vinto un Premio Nobel per la Fisica e uno per la Chimica.
Non tutti ricordano che lo scrittore Primo Levi era uno stimato chimico. Cosa ci può dire al riguardo?
Primo Levi è noto come scrittore e solo parzialmente come chimico e questo sebbene non manchino suoi libri molto vicini alla chimica (come 'Il sistema periodico') e nonostante la chimica sia presente, praticamente, in ogni sua opera. Levi, nella sua eccezionalità, può essere considerato un buon esempio della storica separazione tra la cultura scientifica e quella umanistica (le famose “due culture”) e del tentativo recente di riunificarle. La sua opera è infatti considerata un anello di congiunzione tra questi mondi, il superamento di una separazione per lui priva di senso. Alcuni anziani chimici torinesi mi hanno tuttavia riferito che, mentre era in vita, Levi non era “tanto considerato e presente” all’interno del Dipartimento di Chimica del capoluogo piemontese. Era uno scrittore, un chimico dell’industria, non un “accademico”.
Quali prospettive intravede per la coabitazione delle due culture?
Credo che l’attuale situazione scientifica vada evolvendo verso una maggiore integrazione delle due culture e un piccolo esempio personale può chiarire il concetto. Quest’anno la Società Chimica Italiana si è infatti “munita di un nuovo strumento” di lavoro, il Gruppo Interdivisionale di Epistemologia e Storia della Chimica, per il quale sono stato eletto coordinatore. Fino a poco tempo fa, il termine epistemologia era considerato molto negativamente dagli scienziati. Oggi fa invece parte dell’organigramma della comunità dei chimici.
Ci può fare qualche altro esempio?
Ce ne sarebbero tanti. Attingendo ancora al mio percorso biografico, posso sottolineare di far parte, da chimico, del Collegio di Dottorato di Pisa/Firenze in Filosofia. Un piccolo, ma non trascurabile esempio di contatto tra i due mondi, residuale solo fino a poco tempo fa.
Di Giulio Natta noi italiani sappiamo, mediamente, pochissimo. Davvero è il padre della plastica?
Giulio Natta dovrebbe essere conosciuto dalle persone colte perché è l’unico chimico italiano insignito del Premio Nobel e uno dei pochissimi scienziati del nostro Paese destinatario di questo onore. In realtà, è poco noto e, per di più, il suo nome, essendo spesso associato alla plastica, ha assunto, nel tempo, un’accezione non sempre positiva. Natta, in effetti, ha scoperto e brevettato alcuni catalizzatori per ottenere delle plastiche con caratteristiche “sorprendenti”. Per fare un discorso semplice e accessibile a tutti, questi catalizzatori consentono la ‘’costruzione’’ di un polimero molto ordinato, i cui pezzi sono disposti tutti nello stesso modo, conferendo proprietà speciali alle relative sostanze.
Un’invenzione senza più futuro?
Non saprei dirlo, ma, certamente, le sostanze che la stanno sostituendo sono configurabili anch’esse come “plastiche”, pur se biodegradabili dai batteri e, quindi, meno inquinanti.
Quale ruolo ha la chimica nell’attuale, travolgente sviluppo delle scienze bio-genetiche e bioinformatiche?
Il rapporto della chimica con la biologia e con la medicina ha una lunga storia. Anch’io me ne sono occupato sia con lavori specialistici sia con libri generali. Tale rapporto si è dimostrato particolarmente efficace per la natura stessa della spiegazione chimica, per “composizione” più che per “leggi di natura”. Oggi, la chimica costituisce il “linguaggio” preferenziale della biologia, della farmacologia e della medicina e ha portato scientificità in queste discipline percorrendo una strada diversa rispetto a quella matematica, seguita dalla fisica.
E nella meccanica quantistica?
Anche il rapporto della chimica con la fisica, e in particolare quello con la meccanica quantistica, è ampiamente consolidato. Per fare un esempio, oggi svolgo ricerche considerate parte della chimica quantistica perché utilizzo i modelli e i calcoli della meccanica quantistica al fine di capire e interpretare problemi sperimentali chimici.
Prima di Mendeleev e della sua Tavola degli Elementi, cos’era la chimica?
Oggi la Tavola Periodica di Mendeleev è l’immagine chimica più conosciuta, quasi la sua icona. Non c’è un posto in cui si faccia della chimica in cui manchi tale immagine appesa al muro. La sua prima versione è del 1869, ma non si deve pensare che sia stata una cesura, uno spartiacque per la chimica dell’Ottocento. Prima di tale Tavola, infatti, erano già stati fatti altri tentativi di dare un “senso di gruppo” agli elementi, mentre quella che utilizziamo oggi è intrisa di meccanica quantistica, inesistente all’epoca di Mendeleev.
A proposito, che c’è di vero in merito alla natura quasi ‘soprannaturale’ della scoperta di Mendeleev?
Tutte le scoperte scientifiche importanti sono state “mitizzate” e la Tavola Periodica di Mendeleev non ha fatto eccezione. Queste “storie” ad esse legate sono storicamente false, ma possono ‘’motivare gli studenti’’.
Il piccolo chimico è uno dei giochi più popolari da decenni. Come mai non genera molti adulti appassionati?
I giochi scientifici, come il piccolo chimico, hanno svolto, e possono ancora svolgere, un ruolo di motivazione per i giovani. Il fatto che, nonostante ciò, la chimica sia considerata “poco appassionante” lo possiamo legare alla sua ‘’immagine sociale’’, al suo legame con l’inquinamento. In realtà, la chimica odierna ha sviluppato una notevole attenzione alle problematiche ambientali e rappresenta lo strumento principale per combattere scientificamente l’inquinamento. L’alternativa a quest’azione utile della chimica è un astorico ritorno ad un mitico passato.
Generalmente, cosa scoraggia e cosa appassiona della sua disciplina scientifica?
Un ostacolo alla diffusione della chimica è la sua mancanza di generalizzazioni di facile comprensione o che, quanto meno, lascino vagare la fantasia. Non c’è nella chimica né l’evoluzione delle specie viventi della biologia né lo spazio curvo e l’antimateria della fisica. Il lavoro del chimico, tuttavia, dovrebbe appassionarci non poco, se riflettiamo sul fatto che consiste nel lavorare con le molecole senza vederle. Queste, infatti, sono “oggetti” così piccoli che una goccia d’acqua ne contiene mille miliardi di miliardi, un numero talmente grande da configurarsi come inimmaginabile. Eppure, lavorando con questi “minuscoli oggetti”, il chimico riesce a “costruire sostanze” essenziali in molti prodotti che usiamo comunemente.
L’umanità quanto deve alla chimica?
La chimica è la più “pratica” delle discipline scientifiche. Molti autori hanno mostrato che noi tutti abbiamo interazioni con la chimica da quando ci svegliamo, di mattina, e ci laviamo i denti con il dentifricio, fino a quando andiamo a letto, a fine giornata, vestendo pigiami sintetici. E questa considerazione, che vale anche quando siamo in salute, acquista maggiore rilevanza quando ricorriamo a sostanze chimiche per curarci.
E Giovanni Villani?
Devo tanto alla chimica. Ho giocato con il “piccolo chimico”, mi sono appassionato a questa disciplina per la sua profondità e duttilità e, infine, ho avuta la fortuna di poter lavorare nel suo ambito di ricerca, riflettendo sui suoi concetti chiave. Per me la chimica è stata, ed è ancora oggi, a distanza di decenni, oltre che un lavoro, un hobby.
Ettore Zecchino
Professore ordinario di zoologia, biodiversità animale, etoecologia e sociobiologia all’Università di Parma, ha fatto parte del direttivo della Società Italiana di Etologia e ha guidato la sezione italiana dell’International Union for the Study of Social Insects. Membro dell’Accademia Nazionale Italiana di Entomologia, è nel direttivo della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica. Studia il comportamento e l’ecologia degli insetti (soprattutto formiche) e si occupa di ecologia forestale e urbana e di ‘citizen science’. Per Adelphi ha tradotto ‘Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica’ (1997-rist.2020) e ha curato la revisione de ‘Il Superorganismo’ (2011). È autore de ‘Il formicaio intelligente - Come vivono e che cosa possono insegnarci i più sociali tra gli insetti’ (2018, Zanichelli) e di ‘Etologia. Lo studio del comportamento animale’ (2022, Utet Università).
Professore, le discipline da Lei studiate e insegnate non sono messe bene a fuoco da tutti. Ci definisce la zoologia, l’etologia e l’entomologia?
La zoologia è lo studio scientifico degli animali ed è la scienza madre, nella quale sono comprese l’etologia, incentrata sul comportamento degli animali (e, in realtà, anche di noi umani) e l’entomologia, che, come suggerisce direttamente la sua etimologia, è, specificamente, lo studio degli insetti.
E i suoi riferimenti?
Per la zoologia, partirei da Aristotele e poi dai grandi studiosi del mondo romano, come Lucrezio Caro e Plinio il Vecchio, arrivando, grazie a un percorso bimillenario in compagnia di famosi scienziati europei che sarebbe troppo lungo elencare, al grande Charles Darwin. Cioè a colui che ha posto le basi della modernità anche per quanto riguarda le scienze zoologiche.
In ambito etologico citerei, invece, figure cardine quali Konrad Lorenz, Nikolaas Tinbergen e Karl Ritter von Frisch, insieme Premi Nobel nel 1973 e fondatori dell’etologia moderna, della quale hanno fissato i canoni.
Riguardo all’entomologia, e, in particolare, allo studio di comportamento, ecologia e socialità, il mio principale riferimento è Edward O. Wilson, con i suoi straordinari studi sulle formiche e non solo.
In Italia?
Limitandomi all’etologia, ricorderei quattro figure importanti, espressioni di altrettante scuole universitarie. Mi riferisco a Leo Pardi, fondatore della disciplina a Firenze, a Floriano Papi (Pisa), a Mario Zanforlin, di formazione psicologica (Padova) e a Dànilo Mainardi (Parma), quest’ultimo mio grande maestro e molto conosciuto anche al grande pubblico per i suoi libri e le numerose trasmissioni televisive a cui per molti anni ha preso parte. Senza dimenticare colui che mi ha introdotto e guidato nello studio della sociobiologia degli insetti, Francesco Le Moli, professore a Parma e allievo di Mainardi.
La scuola leader nel mondo oggi?
Storicamente, le scuole importanti sono quasi sempre state quelle angloamericane e centroeuropee. Oggi, direi che l’ampia diffusione della nostra disciplina nel mondo ha prodotto un livellamento verso l’alto. Possiamo sicuramente affermare che l’Italia ha una solida tradizione alle spalle e un buon presente in ambito internazionale.
Cosa si intende per ‘citizen science’?
Si intende la scienza ‘partecipata’ dal cittadino, il cui contributo diventa fondamentale nei singoli passaggi della scoperta scientifica. Una scienza partecipata (dallo studente, come dal semplice appassionato) rende il cittadino un ‘presidio’ permanente, soprattutto nella raccolta dei dati, consentendo di rinvenire molte più informazioni sparse nello spazio e nel tempo di quante potrebbero essere raccolte dai soli ricercatori professionisti. Un valore aggiunto non da poco, che si aggiunge a quello intrinseco della collaborazione, cruciale per ogni attività di ricerca e qui particolarmente esaltato. In più, nel ‘fare scienza’ in questo modo, il cittadino si alfabetizza in materia, diventando meno vulnerabile alle fake news. I progetti di ‘citizen science’, che oltre ad affrontare temi di biologia ed ecologia, vanno dall’archeologia all’astronomia, devono, tuttavia, essere rigorosamente ‘organizzati’ e devono fondarsi sul metodo scientifico. In etologia, tale innovazione ha prodotto brillanti risultati e, personalmente, ho all’attivo diversi progetti di questo tipo.
In ambito universitario quali differenze di approccio coglie tra l’Italia e gli altri Paesi culturalmente ‘leader’ nel mondo?
Come per molte altre discipline, registro, nel nostro Paese, una maggiore solidità dell’insegnamento teorico rispetto a quello pratico, forse, almeno in parte, anche come conseguenza di notevoli carenze finanziarie, e, quindi, infrastrutturali. Siamo più ‘robusti’ culturalmente, ma meno avvezzi al ‘problem solving’ pratico. Non a caso, i nostri studenti, trapiantati all’estero, dopo una iniziale fase di rodaggio nei settori ‘operativi’, riescono a far valere appieno la loro formazione accademica, suscitando, spesso, grande ammirazione.
Quale impatto specifico hanno avuto, nelle materie da Lei studiate, gli ultimi sviluppi della biologia computazionale e quelli, non solo intravisti, dell’Intelligenza Artificiale?
Gli approcci computazionali stanno dando dei risultati molto interessanti, soprattutto relativamente allo studio delle relazioni sociali tra gli insetti, che oggi possono essere monitorabili automaticamente e ininterrottamente. Modellizzazioni e simulazioni sono infatti utilissime per comprendere meglio il comportamento degli animali, come, relativamente alle formiche, ho avuto modo di mostrare nel corso del mio seminario alle ‘2ue Culture’ di Biogem. La biologia computazionale e l’ingegneria informatica ci consentono, ad esempio, di sperimentare autentiche forme di biomimetica, realizzabili anche grazie a una sofisticatissima robotica, simulatrice o relazionata con animali veri. Si tratta, in generale, di una modalità di osservazione che ci consente di integrare al massimo livello possibile quella ‘naturale’.
Quando e come è nata la sua passione per le formiche?
Fin da bambino sono stato attratto da tutti gli animali, soprattutto dalle forme più nascoste, neglette e spesso repulsive per i più, da <<quelle piccole cose che governano il mondo>>, per dirla con il grande Edward O. Wilson. Sono rimasto, quindi, affascinato da queste realtà parallele, misteriose ‘galassie’, situate sulla terra e, per di più, a pochi centimetri da me. A Parma, poi, ho trovato un terreno particolarmente fertile grazie proprio a Dànilo Mainardi e a Francesco Le Moli.
Quali animali ha studiato più approfonditamente?
Le formiche, considerate come insetti sociali per antonomasia e per me modelli di studio dei diversi aspetti della biologia animale. Grazie a loro, ho viaggiato in lungo e in largo negli studi, spaziando dalla biologia alla genetica, dall’istologia alla chimica e a diverse altre branche delle scienze naturali. Attualmente, ci stiamo occupando anche degli insetti saproxilici, cioè quelli che riciclano il legno morto (soprattutto coleotteri) e di alcuni impollinatori molto interessanti e di rilevante valenza ecologica e conservazionistica (ricordiamoci che non ci sono solo le api).
Condivide, come primo approccio a questo mondo, quello imperante Disneyano?
Lo trovo tendenzialmente errato, anche se funzionale ad avvicinare i bambini, che devono, quindi, essere prontamente immessi su un binario più scientificamente corretto.
Quando sono comparse sulla Terra le prime formiche?
Fossili particolarmente ben conservati di formiche in ambra risalgono a circa 100 milioni di anni fa, ma si tratta già di formiche operaie. Questo vuol dire che la storia sociale di questi insetti era già cominciata da tempo. Sulla base di evidenze anche molecolari si parla di circa 130-150 milioni di anni fa.
Ci descrive il tipo di comunicazione che ha luogo tra loro?
Fondamentalmente è di tipo chimico ed è basato sulla trasmissione di informazioni tramite feromoni. Le formiche sono considerate delle piccole fabbriche ambulanti di sostanze chimiche, utilizzate anche per la comunicazione. Non mancano, comunque, altre forme di comunicazione, come quelle vibrazionali, conseguenti all’emissione di stridulazioni, in larga parte trasmissibili attraverso il substrato corporeo.
Esemplari di specie diverse si capiscono tra loro?
Ci sono alcuni elementi della comunicazione chimica in qualche modo riconoscibili anche da più specie e determinati dall’emissione di specifiche molecole. Ad esempio, alcune sostanze d’allarme sono comuni tra alcune specie e quindi veicolano potenzialmente la stessa informazione. Gli individui appartenenti a diverse specie hanno odori che li contraddistinguono. In alcuni casi è stata riscontrata la possibilità che questa marcatura specifica venga riconosciuta non solo come elemento di mera diversità dalla propria, ma anche come ‘codice’ identificativo proprio di quella specie ben precisa (ad esempio, un acerrimo nemico), in modo da ispirare un comportamento adeguato. Bisogna precisare che questi casi non sono ascrivibili ad una vera comunicazione tra le parti ma indicano semplicemente che qualche elemento del sistema comunicativo è simile per convergenza evolutiva o è stato intercettato a proprio vantaggio.
E l’interazione con i vegetali e con altre specie animali?
Con il mondo vegetale è massima. Moltissime specie di formiche, infatti, intrattengono relazioni strette (persino vere e proprie simbiosi) con le piante, dalle quali, ad esempio, ricavano cibo o rifugio, offrendo in cambio la protezione da animali fitofagi o da agenti patogeni, questi ultimi sconfitti grazie alle sostanze antifungine e/o antibiotiche prodotte da queste straordinarie fabbriche chimiche viventi. Si tratta di temi a me molto cari e che affronto direttamente nelle mie ricerche. Altre formiche, attratte da un premio alimentare contenuto nei semi di alcune specie, li raccolgono ma, mangiata la parte attrattiva, li lasciano, disperdendoli nel terreno e consentendo alle piante di ‘spostarsi’ in altri luoghi.
Esempi di relazioni mutualistiche più o meno strette con altri animali sono quelle che alcune specie di formiche intrattengono con alcuni afidi (i cosiddetti pidocchi delle piante) e con le cocciniglie (anch’esse parassite delle piante, a volte molto dannose). Si tratta di insetti produttori della melata, una sostanza di scarto per loro ma utile all’alimentazione delle formiche, che difendono i loro fornitori dall’attacco di predatori e parassiti. In questi casi spesso, ma non sempre, le formiche favorendo i parassiti delle piante danneggiano, seppur, indirettamente, queste ultime. Bisogna stare, tuttavia, attenti a trarre semplicistiche conclusioni dal momento che è sempre necessario valutare quali specie sono coinvolte nelle relazioni e il bilancio netto dei danni e dei benefici derivanti da queste interazioni.
Cosa ha imparato dalle formiche il genere umano?
Tantissimo! Dagli algoritmi ricavati dai loro sistemi organizzativi alla chimica da loro prodotta e da noi ricercatori approfonditamente studiata. Come esseri umani non riusciamo ancora, invece, ad essere collaborativi in maniera non egoistica, come fanno, al massimo grado, le formiche.
Quale tipo di intelligenza si può attribuire a questi piccoli insetti?
Dispongono di un’intelligenza individuale non trascurabile, alla base di una loro notevole capacità percettiva, ma anche di una discreta capacità nella gestione delle informazioni e di diversi tipi di apprendimento. Sono, inoltre, in grado di modificare il proprio comportamento e possono usare degli strumenti. La loro vera, insuperabile forza, rimane, tuttavia, l’intelligenza di sciame, ovvero quelle proprietà emergenti che derivano dalle attività collettive coordinate e che permettono al sistema di risolvere problemi complessi e acquisire capacità di molto superiori alla somma di quelle singole che la compongono.
E un’anima?
Credo, appunto, che esista una sorta di ‘’anima collettiva”, riferibile all’intera colonia.
Come e dove si manifesta il lato ‘umanistico’ della sua professione?
Le rispondo citando una frase di Edward O. Wilson che, in una mail inviatami qualche anno fa, ripetendo un concetto già espresso altre volte in pubblico e nei suoi libri, scriveva che <<lo scienziato ideale lavora come un contabile, ma pensa come un poeta>>. E la meraviglia nei confronti del mondo è effettivamente la stella polare della mia attività scientifica. Percepisco, inoltre, la grande importanza, per uno ‘scienziato della natura’, di discipline quali la storia, la filosofia, la letteratura. Aver partecipato alle ‘2ue Culture’ di Biogem ha, quindi, assecondato una mia tendenza e una mia profonda attitudine.
Cosa pensa della polemica, ormai carsica, sulla gastronomia futura, incentrata sugli insetti?
Sicuramente è un ambito da esplorare e da approfondire. D’altra parte, nel mondo ci sono già due miliardi di mangiatori di insetti, fornitori di sostanze nutritive indispensabili per gli abitanti di Paesi geograficamente lontani da noi e non solo. Come anche per altri alimenti, possono esserci rischi nel loro consumo (allergeni, pratiche scorrette di allevamento), e, quindi, occorre un alto livello di prudenza, oltre a un approccio solidamente scientifico. Si tratta, comunque, di una novità ineludibile a cui guardare con fiducia sia da un punto di vista nutrizionale sia per le implicazioni nel contesto della sostenibilità ambientale. Da non considerare, ovviamente, come la panacea di tutti i mali, ma neppure da demonizzare.
Ettore Zecchino
Chitarrista jazz tra i più apprezzati al mondo, Pasquale Grasso è nato ad Ariano Irpino nel 1988 e attualmente vive a New York. Nel termpo ha sviluppato una tecnica molto originale, ispirata dai pionieri del bebop, come Bud Powell, Charlie Parker e Dizzy Gillespie e arricchita da una formazione musicale classica. Definito una decina di anni fa dal grande Pat Metheny <<il miglior chitarrista ascoltato in tutta la mia vita>>, Pasquale Grasso continua ad affiancare allo studio e alla didattica una frenetica attività concertistica nei più prestigiosi locali di Manhattan.
Nel 2015 ha pubblicato il suo primo album, ‘Reflections of Me’. Nello stesso anno ha vinto, a New York, il 'Wes Montgomery International Jazz Guitar Competition'. Nel 2017 ha firmato con la Sony Masterworks.
Raffinato interprete, ad oggi può vantare anche 25 composizioni proprie. Vincitore di un Grammy nel 2023 per l’accompagnamento con chitarra in un album della nuova stella del canto jazz, Samara Joy, è stato ‘Migliore chitarrista 2023-2024’ nella categoria ‘The Rising Star Guitar’ per la celebre rivista ‘DownBeat’.
Suona una chitarra ideata e costruita dal liutaio Bryant Trenier, suo amico di vecchia data
Maestro, dai primi concerti nella natia Ariano Irpino ai più prestigiosi jazz club di Manhattan, quanto ha contato la famiglia nell’indicarle le prospettive giuste?
Tantissimo. I miei genitori mi hanno indirizzato alla musica con mio fratello Luigi, dedicandosi infaticabilmente alla nostra formazione. Mio padre ci ha accompagnato ovunque in giro per l’Europa, consentendoci di seguire corsi di maestri prestigiosi. In un certo senso è stato il nostro primo maestro. Da dilettante, ma dotato di un talento naturale per la musica, ha infatti individuato precocemente le nostre potenzialità, contribuendo, nei primi tempi, al miglioramento della nostra tecnica. Quanto a mia madre, basti dire che ha letteralmente imparato a ‘solfeggiare’ con noi, per aiutarci nel migliore modo possibile. La costante armonia familiare ha fatto il resto.
Il rapporto con suo fratello ha mai risentito di quella che, biblicamente, potremmo chiamare ossessione a differenziarsi?
Fortunatamente no. Anzi, devo a lui, più grande di qualche anno, il mio ingresso nel mondo della musica. Diciamo che in famiglia Luigi ha fatto da battistrada.
In quale modo la sua provenienza geografica ha inciso sulla sua carriera?
Credo che l’essere nato e cresciuto in una comunità piccola ma sana sia stata una fortuna per noi. Abbiamo infatti potuto concentrarci sulla musica, con serenità e senza distrazioni, ispirati anche dalla bellezza dei paesaggi verdi della campagna arianese.
New York è una scelta definitiva?
La Grande Mela è una delle patrie del jazz ed è una metropoli che non smette mai di sorprendermi. Confesso che ne sono innamorato.
Una decina di anni fa Pat Metheny ha sostanzialmente definito Pasquale Grasso il musicista più interessante al mondo. Cosa pensa Lei del grande Pat Metheny?
Lo considero un talento unico, una persona straordinaria e, con mio grande onore, un vero amico. Lo ascolto sempre con piacere e non di rado suoniamo insieme, anche se i nostri stili sono molto diversi.
A distanza di anni da questa enorme gratificazione, ci racconta il suo stato d’animo iniziale e le motivazioni in Lei suscitate? Ha mai temuto di ‘bloccarsi’ o inibirsi oltre misura?
Ho sempre avuto un approccio alla musica improntato a un sentimento di positività, forse favorito dal piacere che ancora provo a suonare. Le ansie e le paure non sono mai mancate, ma sono riuscito a non farmi sopraffare. Non sempre è stato facile. In Italia mi sentivo poco compreso perché il tipo di musica che ho scelto non è particolarmente popolare. Qui negli Usa, al contrario, le ‘sfide’ e le ‘prove’, con le annesse ansie, sono all’ordine del giorno!
Perché ha cominciato ad ispirarsi a Bud Powell, eccellente musicista jazz, ma pianista e di un’epoca ormai molto lontana?
Credo si tratti di una connessione un po' istintiva, poco spiegabile razionalmente. D’altra parte, essere suggestionati da geni di questa portata è piuttosto naturale.
La sua riconosciuta capacità di fondere approccio classico e jazz nel suonare la chitarra ha già fatto scuola o è ancora isolato tra i grandi interpreti?
Mi sembra, sinceramente, di non essere in così grande compagnia. La mia formazione classica mi consente, infatti, di suonare usando le ‘unghie’, e, comunque, di utilizzare tutte le dita di una mano, prerogativa molto rara in un jazzista puro.
Crede di essere destinato a mantenere nel tempo questo stile o intravede approcci innovativi nella sua evoluzione?
Quando compongo o suono non penso mai allo stile, che non credo sia programmabile e che, comunque, per sua natura, è soggetto ad evoluzioni.
La sua creatività si è espressa maggiormente nell’esecuzione di brani altrui. A quando l’evoluzione in compositore di musica propria?
Per la verità, ho composto, ad oggi, 25 brani, ma trovo sempre molto gratificante anche il ruolo dell’interprete.
Con quale strumento collabora meglio?
Forse proprio con il sassofono, meglio se suonato da mio fratello Luigi.
Le sue maggiori performances singole e in gruppo?
Ricordo con particolare trasporto una recente esibizione al Birdland Jazz Club, qui a New York. Porto nel profondo del cuore la mia partecipazione ad Umbria Jazz, nel 2022.
E le mitiche jam sessions?
Sono all’ordine del giorno.
Bud Powell a parte, i suoi miti del jazz?
Tra gli altri, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Duke Ellington, Louis Amstrong, Billie Holliday.
E della musica classica?
Senza dubbio Bach e Beethoven.
Quale repertorio pop tende ad ascoltare per rilassarsi?
In verità, non ascolto molta musica pop.
Il suo rapporto con la grande tradizione melodica napoletana?
Ottimo! Spesso mi diletto a suonare con la mia chitarra le più famose melodie del periodo d’oro.
Mediamente in Italia si compone e si suona jazz di qualità?
Credo proprio di sì e ho spesso la fortuna di esibirmi con colleghi di sicuro talento. Non posso, tuttavia, dire di conoscere a fondo la realtà italiana.
I suoi principali maestri?
Il primo, cronologicamente parlando, è stato Agostino Di Giorgio, newyorkese trasferitosi a Roma. Poi fu la volta di Barry Harris, che mi ha impartito preziose lezioni in Svizzera. Non ultimo, Walter Zanetti, il mio docente al Conservatorio di Bologna, fondamentale perché, grazie alla sua passione per il jazz, ha saputo seguire con competenza il mio percorso di contaminazione con il ‘classico’.
Come vive il lato ‘scientifico’ della sua attività?
Superficialmente. Percepisco nitidamente il lato ‘tecnico’, ma sono ispirato esclusivamente dal mondo delle
emozioni.
Da un punto di vista strettamente umanistico, invece, quali sollecitazioni da altre discipline accrescono la sua sensibilità musicale?
Fonte principale di ispirazione è la vita vera. In ambito artistico molte suggestioni mi arrivano dall’arte figurativa, come quella che spesso ammiro al Metropolitan Museum, qui a New York.
Conosce Biogem e il suo meeting ‘Le 2ue culture’?
Me ne ha parlato mio padre e sarei molto contento di parteciparvi.
Nostalgia per Ariano?
Quella è costante. Ogni settimana penso ai paesaggi, ai sapori e ai tanti affetti della mia terra e continuo a trarne ispirazione.
Ettore Zecchino
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