I protagonisti delle due culture

    Pasquale Grasso

    Chitarrista jazz tra i più apprezzati al mondo, Pasquale Grasso è nato ad Ariano Irpino nel 1988 e attualmente vive a New York. Nel termpo ha sviluppato una tecnica molto originale, ispirata dai pionieri del bebop, come Bud Powell, Charlie Parker e Dizzy Gillespie e arricchita da una formazione musicale classica. Definito una decina di anni fa dal grande Pat Metheny <<il miglior chitarrista ascoltato in tutta la mia vita>>, Pasquale Grasso continua ad affiancare allo studio e alla didattica una frenetica attività concertistica nei più prestigiosi locali di Manhattan.

    Nel 2015 ha pubblicato il suo primo album, ‘Reflections of Me’. Nello stesso anno ha vinto, a New York, il 'Wes Montgomery International Jazz Guitar Competition'. Nel 2017 ha firmato con la Sony Masterworks.
    Raffinato interprete, ad oggi può vantare anche 25 composizioni proprie. Vincitore di un Grammy nel 2023 per l’accompagnamento con chitarra in un album della nuova stella del canto jazz, Samara Joy, è stato ‘Migliore chitarrista 2023-2024’ nella categoria ‘The Rising Star Guitar’ per la celebre rivista ‘DownBeat’.

    Suona una chitarra ideata e costruita dal liutaio Bryant Trenier, suo amico di vecchia data

     

    Maestro, dai primi concerti nella natia Ariano Irpino ai più prestigiosi jazz club di Manhattan, quanto ha contato la famiglia nell’indicarle le prospettive giuste?

    Tantissimo. I miei genitori mi hanno indirizzato alla musica con mio fratello Luigi, dedicandosi infaticabilmente alla nostra formazione. Mio padre ci ha accompagnato ovunque in giro per l’Europa, consentendoci di seguire corsi di maestri prestigiosi. In un certo senso è stato il nostro primo maestro. Da dilettante, ma dotato di un talento naturale per la musica, ha infatti individuato precocemente le nostre potenzialità, contribuendo, nei primi tempi, al miglioramento della nostra tecnica. Quanto a mia madre, basti dire che ha letteralmente imparato a ‘solfeggiare’ con noi, per aiutarci nel migliore modo possibile. La costante armonia familiare ha fatto il resto.

     

    Il rapporto con suo fratello ha mai risentito di quella che, biblicamente, potremmo chiamare ossessione a differenziarsi?

    Fortunatamente no. Anzi, devo a lui, più grande di qualche anno, il mio ingresso nel mondo della musica. Diciamo che in famiglia Luigi ha fatto da battistrada.

    In quale modo la sua provenienza geografica ha inciso sulla sua carriera?

    Credo che l’essere nato e cresciuto in una comunità piccola ma sana sia stata una fortuna per noi. Abbiamo infatti potuto concentrarci sulla musica, con serenità e senza distrazioni, ispirati anche dalla bellezza dei paesaggi verdi della campagna arianese.

     

    New York è una scelta definitiva?

    La Grande Mela è una delle patrie del jazz ed è una metropoli che non smette mai di sorprendermi. Confesso che ne sono innamorato.

    Una decina di anni fa Pat Metheny ha sostanzialmente definito Pasquale Grasso il musicista più interessante al mondo. Cosa pensa Lei del grande Pat Metheny?

    Lo considero un talento unico, una persona straordinaria e, con mio grande onore, un vero amico. Lo ascolto sempre con piacere e non di rado suoniamo insieme, anche se i nostri stili sono molto diversi.

    A distanza di anni da questa enorme gratificazione, ci racconta il suo stato d’animo iniziale e le motivazioni in Lei suscitate? Ha mai temuto di ‘bloccarsi’ o inibirsi oltre misura?

    Ho sempre avuto un approccio alla musica improntato a un sentimento di positività, forse favorito dal piacere che ancora provo a suonare. Le ansie e le paure non sono mai mancate, ma sono riuscito a non farmi sopraffare. Non sempre è stato facile. In Italia mi sentivo poco compreso perché il tipo di musica che ho scelto non è particolarmente popolare. Qui negli Usa, al contrario, le ‘sfide’ e le ‘prove’, con le annesse ansie, sono all’ordine del giorno!

     

    Perché ha cominciato ad ispirarsi a Bud Powell, eccellente musicista jazz, ma pianista e di un’epoca ormai molto lontana?

    Credo si tratti di una connessione un po' istintiva, poco spiegabile razionalmente. D’altra parte, essere suggestionati da geni di questa portata è piuttosto naturale.

    La sua riconosciuta capacità di fondere approccio classico e jazz nel suonare la chitarra ha già fatto scuola o è ancora isolato tra i grandi interpreti?

    Mi sembra, sinceramente, di non essere in così grande compagnia. La mia formazione classica mi consente, infatti, di suonare usando le ‘unghie’, e, comunque, di utilizzare tutte le dita di una mano, prerogativa molto rara in un jazzista puro.

     

    Crede di essere destinato a mantenere nel tempo questo stile o intravede approcci innovativi nella sua evoluzione?

    Quando compongo o suono non penso mai allo stile, che non credo sia programmabile e che, comunque, per sua natura, è soggetto ad evoluzioni.

     

    La sua creatività si è espressa maggiormente nell’esecuzione di brani altrui. A quando l’evoluzione in compositore di musica propria?

    Per la verità, ho composto, ad oggi, 25 brani, ma trovo sempre molto gratificante anche il ruolo dell’interprete.

     

    Con quale strumento collabora meglio?

    Forse proprio con il sassofono, meglio se suonato da mio fratello Luigi.

     

    Le sue maggiori performances singole e in gruppo?

    Ricordo con particolare trasporto una recente esibizione al Birdland Jazz Club, qui a New York. Porto nel profondo del cuore la mia partecipazione ad Umbria Jazz, nel 2022.

     

    E le mitiche jam sessions?

    Sono all’ordine del giorno.

     

    Bud Powell a parte, i suoi miti del jazz?

    Tra gli altri, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Duke Ellington, Louis Amstrong, Billie Holliday.

     

    E della musica classica?

    Senza dubbio Bach e Beethoven.

     

    Quale repertorio pop tende ad ascoltare per rilassarsi?

    In verità, non ascolto molta musica pop.

     

    Il suo rapporto con la grande tradizione melodica napoletana?

    Ottimo! Spesso mi diletto a suonare con la mia chitarra le più famose melodie del periodo d’oro.

     

    Mediamente in Italia si compone e si suona jazz di qualità?

    Credo proprio di sì e ho spesso la fortuna di esibirmi con colleghi di sicuro talento. Non posso, tuttavia, dire di conoscere a fondo la realtà italiana.

     

    I suoi principali maestri?

    Il primo, cronologicamente parlando, è stato Agostino Di Giorgio, newyorkese trasferitosi a Roma. Poi fu la volta di Barry Harris, che mi ha impartito preziose lezioni in Svizzera. Non ultimo, Walter Zanetti, il mio docente al Conservatorio di Bologna, fondamentale perché, grazie alla sua passione per il jazz, ha saputo seguire con competenza il mio percorso di contaminazione con il ‘classico’.

     

    Come vive il lato ‘scientifico’ della sua attività?

    Superficialmente. Percepisco nitidamente il lato ‘tecnico’, ma sono ispirato esclusivamente dal mondo delle

    emozioni.

     

    Da un punto di vista strettamente umanistico, invece, quali sollecitazioni da altre discipline accrescono la sua sensibilità musicale?

    Fonte principale di ispirazione è la vita vera. In ambito artistico molte suggestioni mi arrivano dall’arte figurativa, come quella che spesso ammiro al Metropolitan Museum, qui a New York.

     

    Conosce Biogem e il suo meeting ‘Le 2ue culture’?

    Me ne ha parlato mio padre e sarei molto contento di parteciparvi.

    Nostalgia per Ariano?

    Quella è costante. Ogni settimana penso ai paesaggi, ai sapori e ai tanti affetti della mia terra e continuo a trarne ispirazione.

     

     

    Ettore Zecchino

     
    Antonio Staglianò

    Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, è stato eletto vescovo il 22 gennaio del 2009 per la Diocesi di Noto, dove ha esercitato il ministero episcopale per 14 anni. Dottore in Teologia e in Filosofia, ha insegnato Teologia sistematica all’Istituto Teologico calabro e Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana. Promotore della Pop-Theology, intesa come carità intellettuale a servizio dell’evangelizzazione, è esperto del pensiero di Rosmini, Anselmo d’Aosta e Gioacchino da Fiore e autore di monografie teologiche, filosofiche, poetiche e pastorali, incentrate sul dialogo con il sapere delle culture popolari e con tutti gli altri saperi, anche scientifici. Tra le opere recenti si segnala: ‘Ripensare il pensiero. Lettere sul rapporto fede e ragione a vent’anni dalla Fides et ratio’, Marcianum Press 2023, con prefazione di Papa Francesco e ‘Zibaldone della Pop-Theology, Teologia dell’immaginazione per comunicare la sapienza della fede’, Mimesis 2024, con prefazione di P.A. Sequeri.

     

    Monsignore, ci regala qualche piccola anticipazione del suo intervento a ‘Le 2ue culture’ 2024?

    Il titolo del mio intervento è abbastanza provocatorio e immagina un dialogo sull’amore tra Dante Alighieri, Paul Dirac e John Denver, personalità molto diverse tra loro e lontane nello spazio e/o nel tempo. Credo, comunque, che dobbiamo considerare l’esistenza di una sola cultura, magistralmente definita da Giovanni Paolo II <<ciò che rende l’uomo più uomo>>.  Esattamente il contrario dello scientismo, che non vuole restare dentro l’umano, ma immagina, attraverso la tecnica, un post-umanesimo, un’ibridazione dell’umanità, una riproduzione dell’umano mediante l’applicazione dell’intelligenza artificiale, che sostituirebbe il carbonio con il silicio dell’androide. La cultura scientifica, ridotta a scientismo, perde quindi l’elemento umano. Nel frattempo, seguitiamo ad inflazionare il termine cultura, utilizzandolo a sproposito (basti pensare all’espressione ‘cultura mafiosa’).
    Più specificamente, nel mio intervento, evidenzierò la grande intuizione di Dante Alighieri che, con <<l’amor che move il sole e le altre stelle>> o con <<l’amore che quieta questo cielo>>, dissolve o comunque rielabora la visione cosmologica aristotelica, poi messa in soffitta da Galileo. Il motore immobile di Aristotele è atto puro, pensiero che pensa a sé stesso. Nella cosmologia aristotelica tutto è attratto dal motore immobile, come causalità finale, ma il motore immobile non lo può sapere, altrimenti non sarebbe immobile. Con Dante, invece, il fondamento dell’essere diventa l’amore, che muove, appunto, il sole e le altre stelle. Paul Dirac negli anni Trenta del secolo scorso elabora la sua equazione sull’entanglement, tuttora chiamata equazione dell’amore. Un percorso simile è affrontato da John Denver nel suo celebre ‘Rhymes and Reasons’.

     

    Conosceva già il nostro meeting?

    No. Ho avuto il piacere di incontrare il fisico Antonio Ereditato, che mi ha cortesemente invitato, e ho trovato molto interessante partecipare perché la teologia esca dal ghetto in cui è stata costretta. Il metaverso illuministico ha infatti stuprato il sapere teologico, riducendolo a favola, a mitologia, ghettizzandolo nelle sacrestie. La teologia è, invece, scienza della fede perché, con un metodo rigoroso, osserva la realtà, mette insieme le cose osservate, stabilisce relazioni, giungendo a risultati cumulativi e progressivi. Un concetto non accettato da taluni scienziati, per i quali la scienza è solo sperimentalità e sarebbe quindi preclusa ai saperi storici, filosofici, sociologici e, in fondo, persino matematici (questi ultimi, paradossalmente, fondamento di quasi tutte le scienze). L’incontro-scontro tra le due culture non può non riguardare anche direttamente il concetto di scienza e pure da questo versante dobbiamo superare tale dicotomia.

     

    Un dialogo più serrato tra i due grandi rami del sapere può essere una premessa necessaria per un approccio problematico, ma aperto, al tema della fede in Dio?

    Assolutamente sì, perché se Dio c’è ed è il creatore, non c’è nulla che possa essere investigato dalla scienza che non lo riguardi. La questione è stata sempre impostata sotto il capitolo fede-scienza. Basti pensare alla ‘Fides et ratio’ di Giovanni Paolo II, ma culturalmente parlando si è sempre posto il problema dell’inizio.

     

    La scienza, in particolare, può dare risposte al riguardo? L’argomento è stato di recente trattato da un best seller francese ‘Dio, la scienza, le prove’, di Michel-Yves Bollorè ed Olivier Bonnassies, in Italia non particolarmente acclamato. Lo ha letto? E come lo giudica?

    Devo confessare di averlo letto solo trasversalmente, con l’intenzione di voler trovare queste cosiddette prove. A mio modesto avviso, l’operazione linguistica è stata di puro marketing. La scienza, in realtà, non può provare nulla. Non a caso, in questo testo, l’angolatura non è solo scientifica. Lo scienziato può giungere a delle prove in questo ambito solo se, mentre fa scienza, si fa filosofo.

     

    Cosa può dirci della ‘sua’ pop theology?

    La pop theology è tutta spiegata in una serie di volumi, compreso un monumentale ‘Zibaldone della pop theology’ di 1.030 pagine ed è un tentativo di comunicare il sapere della fede, contribuendo all’intelligenza delle cose che riguardano l’umano. La rivelazione di Dio è un sapere che riguarda l’umano in tutte le sue espressioni e la pop theology, in particolare, si impegna a comunicare, recuperando nell’elaborazione teologica non solo il concetto critico ma anche tutti i registri linguistici dell’immaginazione, sostanzialmente quelli artistici, figurativi, narrativi e musicali. Proprio la musica, per Platone, è una legge morale che riguarda tutte le cose, dando impulso alla gioia e fascino alla tristezza, ma è anche energia che anima tutto. Del resto, l’inflazione cosmica richiama al concetto di soffio, di suono, un po' come il soffio, il vento divino della Genesi.

     

    Fin dove può arrivare la teologia nel tentativo di penetrare il mistero di Dio?

    Non deve arrivare a penetrare il mistero di Dio, ma deve accoglierlo, con la rivelazione di Cristo. La ricerca scientifica è in un umile atteggiamento di osservazione. Il problema della teologia è saper spiegare il mistero, già intelligibile dagli esseri umani. Il genio del Cristianesimo riguarda l’uomo è l’umanità, che va spiegata nel suo mistero, a immagine e somiglianza di Dio. Per non dire che con il “cristocentrismo” l’umano di cui parliamo è esso stesso un mistero sepolto nei secoli. Gesù di Nazareth è prima del suo stesso avvenimento storico. Scombussola le strutture del tempo. Niente paura! Oggi la meccanica quantistica sta riorientando i termini di passato, presente e futuro. Basti pensare al film ‘Interstellar’. Con il Vangelo si viene a sapere che Gesù di Nazareth – nato duemila anni fa - viene “prima di Adamo, prima che il mondo fosse”. La teologia non deve perderlo di vista, deve esibirne l’intelligibilità per la ricerca umana della verità e del senso.

     

    Il sacro si alimenta anche di tradizioni, liturgie e linguaggi propri?

    Assolutamente sì e viene prima di qualunque ragione scientifica, entrando nelle fibre più profonde dell’umano. L’uomo nasce come animale simbolico e il sacro come anelito e apertura all’infinito è nella stoffa originaria dell’uomo, che è sempre ‘homo religiosus’. Gesù Cristo dissacrerà tutto, abolendo il sacro e dando inizio alla stagione della santità. Con Cristo l’unica cosa sacra è la libertà umana. Di qui, la desacralizzazione del sabato e la santificazione dell’uomo che opera nella libertà dell’amore-carità. Santificazione vuole dire pienezza di umanità, non altro.

     

    Come possono convivere Mengoni e il canto gregoriano?

    Non è Mengoni che deve convivere con il canto gregoriano. Quest’ultimo è una modalità melodica che ha aiutato l’uomo a sviluppare lo spirito di contemplazione, ma viene cantato solo in chiesa. Migliaia di giovani sanno, invece, a memoria, tutte le canzoni di Mengoni. Investigandone i contenuti, si può sperare di trovare spiragli di luce che aiutano a continuare il cammino della vita. I brani di questi cantanti intercettano spesso i problemi della contemporaneità ed è lì che bisogna trovare una breccia per inserirsi e portare la luce del Vangelo.

     

    Cosa pensa della messa in latino?

    Bellissima, ma l’eucaristia è fatta per il popolo. Chi la vuole e la pretende spesso lo fa ad uso ideologico. Anche il papa celebra spesso in latino, ma si rischia di vedere qualcosa di magico nel vecchio rito.

     

    Non avverte il rischio di una Chiesa operatrice sociale come tante altre istituzioni?

    Benedetto XVI nasce come teologo da una tesi dottorale sulla liturgia. La Chiesa cattolica è il sacramento del corpo del Signore che avanza nel tempo, anche in mezzo a tanti errori e veri e propri orrori ed è il mistero stesso del nostro Signore Gesù Cristo, concentrato nella somministrazione dei sacramenti. Non c’è sociologia nella Chiesa cattolica, che è l’unica internazionale della carità. Si tratta, paolinamente, di un’epifania dei figli di Dio. L’ospitalità a un immigrato è ad esempio, epifania dell’essere cristiano più che obbedienza ad un comandamento etico. La partecipante sensibilità al dramma altrui è dentro la pasta umana. <<Chiamami sempre amore>>, canta Roberto Vecchioni, mentre Giovanni Paolo II amava dire <<l’amore mi ha spiegato tutto, è stato tutto per me ed io ammiro questo amore ovunque esso si trovi>>.

     

    Il ricorso alle canzonette nelle omelie non rischia di oscurare l’attualità del racconto e del messaggio evangelico?

    Assolutamente no. Innanzitutto, le omelie sono tradizionalmente noiosissime. Non a caso, Papa Francesco chiede di non superare gli otto minuti. Per il cardinale Carlo Maria Martini l’esistenza dello Spirito Santo è dimostrata dalla sopravvivenza della Chiesa a milioni di prediche noiose. L’omelia è anche un pezzo di retorica che si avvale di strumenti e citazioni. Si può spiegare San Tommaso D’Aquino attraverso Vasco Rossi e non il contrario.

     

    Quale papa ha più efficacemente attuato le grandi novità concettuali introdotte dal Concilio Vaticano II?
    Credo che a modo loro tutti i papi ne siano stati ottimi attuatori. Il Concilio è un oceano da navigare e ogni papa ha dato una sua rotta. Il Concilio, del resto, è stato globalmente attuato attraverso la figura stessa del papa, sempre più chiaramente successore dell’apostolo Pietro e non di un faraone.

     

    Non è finalmente giunto il momento di inseguire concretamente l’aspirazione ad una riunificazione di tutti i cristiani?

    Assolutamente sì. Quest’aspirazione è la speranza del cammino ecumenico, almeno da Paolo VI e dal suo incontro con il patriarca Atenagora. L’ecumenismo è coessenziale al Concilio Vaticano II. Le differenze sono profonde, ma la bardatura imperiale di un papa medievale è totalmente dismessa e siamo sempre più vicini al ‘Papa Angelico’ della tradizione di Gioacchino da Fiore.

     

    Il libero arbitrio nella visione di Antonio Staglianò?

    Il libero arbitrio, purtroppo, non è spiegato tanto bene perché viviamo nel metaverso illuministico. Tra le sue strutture, esaminiamo il concetto di individuo (da individuum) equiparato ad un atomo, all’epoca creduto indivisibile, o ad una monade, un soggetto autocentrato, fonte di diritti e di doveri. Ma è mai esistito un individuo? La libertà è autonomia e autodeterminazione, ma è mai esistita questa libertà? In natura non esiste l’individuo, ma la persona, di cui l’individualità è una modalità. La persona è ‘relazione a’ e senza legami non esiste la persona. Il concetto di individuo è quindi un avatar creato dal metaverso illuminista. Allo stesso modo, la libertà è confusa con l’arbitrio. Il libero arbitrio è il motore della libertà, cioè una sua struttura fondamentale, mentre la libertà vera non sta nell’arbitrio, che può portare anche al male, schiavizzando la persona. La libertà dell’essere umano è quindi solo la libertà di fare il bene, o meglio, è l’attuazione del bene. Se non accogli un migrante, ad esempio, non sei libero, perché non manifesti la tua ‘ontologia’. 

     

    Quali punti di contatto scorge tra il Cristianesimo e le altre grandi religioni, non solo rivelate e monoteiste, del mondo?

    Proprio perché il genio del cristianesimo è in Gesù, la salvezza che il Cristianesimo porta nel mondo riguarda tutti. L’anno prossimo celebreremo i 1.700 anni dal Concilio di Nicea, contro l’eresia di Ario. Tutta la creazione ha un rapporto con Cristo, inclusi Budda, Maometto e tutti gli uomini delle religioni non cristiane. In quanto esseri umani hanno, infatti, con Cristo un rapporto creaturale (cristocentrismo obiettivo). Non c’è quindi problema a ritenere che anche le altre religioni possono essere una via di salvezza.

     

    E quali differenze le sembrano, ad oggi, inconciliabili?

    La differenza sta nel fatto che Gesù Cristo esprime il mistero dell’applicazione integrale dell’amore all’intera umanità e non lo fa con la saggezza delle idee, ma con il vissuto crocifisso della sua persona. Si pensi al perdono: quale religione chiede di amare i propri nemici? Perdonare l’imperdonabile e perciò non arrogarsi il diritto di sopprimere vite umane, non solo gli innocenti, ma anche i colpevoli.

     

    La teoria del ‘cristiano anonimo’ di Karl Rahner può, da sola, spiegare il senso dell’impossibilità sostanziale, per almeno metà della popolazione terrestre, di conoscere Cristo?

    Credo che la teoria del cristiano anonimo sia una via interpretativa del rapporto creaturale tra l’uomo e Cristo. In quanto cristiani siamo, tuttavia, chiamati a testimoniare Cristo nel mondo. Certo, Gandhi è stato più cristiano, benché anonimo, di tanti cristiani praticanti e, d’altra parte, nessuna coscienza umana è fuori dalla grazia cristiana. E’ un mistero della grazia di Cristo e dello Spirito creatore che tante persone – per proprie vie - riescano a vivere forme di amore che assomigliano a quelle insegante da Gesù nella sua predicazione.

     

    Tornando al Cattolicesimo ‘praticato’, le chiese sono certamente meno affollate di qualche decennio fa, soprattutto meno frequentate dai giovani. Sono forse, in compenso, cresciuti consapevolezza e ascolto?

    No, purtroppo no. Nella mia esperienza di vescovo per 14 anni a Noto, ho constatato l’apparizione della prima generazione sostanzialmente incredula, quella dei ‘millenials’. Giovani atei crescono e l’ateismo si sta diffondendo come una religione. I giovani sono nelle braccia di Narciso e dell’ipermercato, impegnati, con i social, a seguire gli influencer, devastazione barbara dell’umanità, frutto essi stessi dell’ipermercato che azzera l’umano. I giovani non seguono più la bellezza che salva il mondo, come quella di Madre Teresa di Calcutta o di Carlo Acutis.

     

     In quale macroarea del nostro Paese avverte una ‘religiosità’ più consistente?

    Sicuramente nel Meridione ancora resistono, attraverso la pietà popolare, valori religiosi, spirituali e profondamente umani. Per pietà popolare intendo pellegrinaggi, santuari e forme pie della pietà. Le feste religiose sono, invece, spesso, espressione di folklore e paganesimo. In ogni caso, il Sud può diventare una risorsa pastorale, oltre che civile e politica, un’autentica speranza per l’Italia, all’insegna di un nuovo umanesimo.

     

    Nella sua storia personale è stato più facile fare breccia nel cuore di un ateo, di un agnostico o di un credente tiepido e disilluso?

    Credo di poter dire che è una questione di delicatezza nell’accompagnare alcuni percorsi di dialogo. Con gli atei mi sono confrontato molto, approfondendo il loro campo di azione, per ottenere rispetto e apertura. Bisogna dialogare con tutti. Insieme, dobbiamo combattere la barbarie umana che l’ipermercato ci sta proponendo.

     

    Una 'summa theologiae' è concepibile ai nostri giorni?

    Credo di no, ma un’enciclopedia sì. Oggi la teologia, infatti, può essere praticata soltanto in una ‘società degli amici’, sul modello di Rosmini.

     

    Quali letture ‘classiche’ e ‘contemporanee’ considera imprescindibili per un 'itinerario della mente verso Dio'?

    Tra i classici, il citato San Bonaventura e le ‘Massime di perfezione cristiana’ di Antonio Rosmini. Per quanto attiene alla teologia contemporanea mi riferirei principalmente al magistero di Joseph Ratzinger. Più che altro mi muoverei su una lettura teologica della santità. Ho appena scritto un’opera intitolata ‘Spiritualità e teologia’.

     

    E quali ascolti e visioni?

    Mi sembrano particolarmente profondi i testi scritti da Amara, ma anche quelli di Fabrizio Moro e Simone Cristicchi. Quanto alla cinematografia non punterei sulla tematica strettamente religiosa. Come non considerare ‘La ‘Grande bellezza’ una visione di grande impatto cristiano?

     

    Esiste il diavolo?

    Certo che sì. Il problema degli esseri umani è captare la presenza di questo grandissimo simulatore. Opere sataniche per antonomasia sono, ad esempio, le guerre in corso. Nelle strutture di peccato che animano il mondo, c’è Satana. Laddove l’umanità dell’uomo è spersonalizzata c’è Satana.

     

    Ettore Zecchino

     

     

     

     

     

     

     

     

    Paolo Caputo

    Nato a Napoli nel 1964, è professore ordinario di Botanica Sistematica presso l’Università ‘Federico II’, direttore dell’Orto Botanico del capoluogo campano e responsabile dell’Herbarium Neapolitanum. Laureatosi con lode in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Napoli (oggi ‘Federico II’), ha poi trascorso un periodo di due anni presso la City University di New York e il New York Botanical Garden, grazie a una borsa di studio Fulbright. I suoi studi si concentrano sulla tassonomia e sulla sistematica molecolare di vari gruppi di piante vascolari e si occupa altresì di nomenclatura delle angiosperme e di biodeterioramento di beni artistici. La sua produzione scientifica conta oltre 100 articoli in extenso. Ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali, tra i quali un lungo mandato come componente del Consiglio Universitario Nazionale.

     

    Professore, quando e come è nata la sua passione per la botanica?

    Quando ero un ancora un bambino e accompagnavo mio padre (botanico) in montagna, nel corso di passeggiate non ancora ‘scientifiche’, ma già piene di domande e di curiosità. Nonostante ciò, molti anni dopo, chiamato a una scelta definitiva, fui incerto fino all’ultimo. Da ‘secchione’ provetto ero nelle condizioni di scegliere vari indirizzi di studio, mentre ragioni pratiche spinsero i miei genitori a sconsigliarmi il lungo percorso della laurea in medicina. Scelsi, infine, con convinzione, le scienze naturali, ma erano in ballo anche discipline lontane dalle amate piante, come giurisprudenza, economia e filosofia.


    Non crede che la sua disciplina sia un tantino sottorappresentata nei media?

    Non direi, quanto meno non più tanto. Semmai, non si parla specificamente di botanica, ma l’interesse per le piante sta crescendo ovunque, a seguito di alcuni allarmi, come quello ricorrente sull’invasione di specie aliene nei nostri giardini, ma anche per la consapevolezza diffusa della necessità di preservare le ultime foreste vetuste del nostro pianeta.


    Una maggiore consapevolezza dell’importanza del patrimonio verde ci aiuterebbe ad affrontare il tragico problema del riscaldamento globale?

    Senza alcun dubbio. Si stanno cominciando a diffondere alcune idee di base su come i vegetali potranno aiutarci, ma la ricerca è fortunatamente più avanti rispetto ai media. Ciò che servirebbe maggiormente è la diffusione capillare di una coscienza ‘verde’, sostenuta dalla scienza, a partire dalle scuole, investendo, ancora più a monte, sulla formazione dei docenti.


    E cosa dire riguardo al suo potenziale ruolo nella prevenzione delle pandemie?

    Direttamente, molto poco. Resta tuttavia evidente che una delle ragioni principali della diffusione di zoonosi ad alto potenziale pandemico è la continua e progressiva trasformazione, di origine antropica, degli habitat naturali di diversi animali selvatici. I frequenti disboscamenti e l’avanzata inarrestabile dell’agricoltura in alcune aree del mondo mettono inevitabilmente l’uomo a contatto ravvicinato con alcuni di questi, favorendo il famigerato salto di specie da parte degli agenti patogeni.


    Facendo un passo indietro, ci definisce la sua disciplina?

    Lo studio degli organismi fotosintetici, a partire dai microorganismi più semplici, passando per le alghe e arrivando a tutte le piante che vivono sul nostro pianeta.


    E, più nel dettaglio, la sistematica?

    Ci sono tuttora difficoltà nel dare una definizione univoca, per via dell’ampia sovrapposizione con altre discipline, come la tassonomia. In linea generale e approssimando, la si può comunque descrivere come lo studio delle relazioni di discendenza tra gli organismi, includendo le tecniche per descrivere nuove specie, per inserirle all’interno di una classificazione e per denominarle formalmente, impiegando un insieme di regole codificate.


    L’onnipresenza del latino nella tassonomia e nella sistematica dovrebbe suggerirci un’origine ‘classica’ delle due discipline o piuttosto un suo grande ‘rilancio’ medievale?

    Né l’uno né l’altro. L’attitudine ad osservare scientificamente la realtà è nata dopo la prima metà dello scorso millennio. La scelta del latino è dovuta solo al fatto che tale lingua, ancora nel ‘700 inoltrato, era la lingua di comunicazione universale dei dotti.


    Chi sono da annoverare come i pionieri della botanica nella storia?

    Solo per citarne alcuni, indicherei Dioscoride e Plinio il Vecchio tra i classici, Alberto Magno tra i medievali. Costoro, pur consegnandoci raffinate descrizioni di numerose piante, erano, tuttavia, ancora profondamente legati a un interesse di natura farmacologica. La botanica, d’altra parte, è stata ancillare alla medicina fino a tutto il ‘700. Inoltre, gli autori menzionati non impiegavano metodi propriamente scientifici, che erano ancora al di là da venire. Pier Andrea Mattioli, a cavallo della metà del XVI secolo, è stato uno dei primi botanici moderni; a partire da questo periodo e per i secoli successivi, molti botanici hanno accompagnato spedizioni esplorative e scientifiche, organizzate dai maggiori governi europei. La sintesi si è raggiunta nel Secolo dei Lumi, con lo svedese Carlo Linneo, che è stato l’autore del monumentale sistema di classificazione e nomenclatura delle piante, parte del quale è in uso tuttora.


    Quale peso ha avuto nel passato e quale peso ha nel presente la scuola italiana?

    I primi orti botanici sono nati in Italia, a Pisa, Padova e Firenze, poco prima della metà del sedicesimo secolo. Il già ricordato Pier Andrea Mattioli era tecnicamente italiano e uno stuolo di suoi colleghi ha contribuito a gettare le fondamenta della botanica moderna. Anche oggi la scuola italiana si fa onore, ma, con la globalizzazione, è arduo parlare di scuole nazionali. Le notizie sulle nuove scoperte si diffondono, infatti, in tempo reale nel mondo. E, fortunatamente, i cancelli della ricerca sono sempre i primi ad aprirsi.


    E, in particolare, quella napoletana?

    La scuola napoletana si è caratterizzata a lungo per il suo contributo dato alla sistematica, soprattutto con riferimento all’esplorazione botanica e alla conoscenza della flora centromeridionale. In tempi più recenti, a questi interessi si sono aggiunti lo studio delle alghe, delle cicadee, (antiche piante a seme tropicali in via di estinzione) e un interesse specifico verso la filogenesi e l’evoluzione.


    Sono nati prima gli orti botanici o gli studi scientifici sulle piante?

    Direi contemporaneamente, anche se all’inizio tale studio aveva, come già accennato, un prevalente interesse medico. Tassonomia e sistematica sono diventate importanti a partire dal ‘600, quando, a seguito della scoperta di migliaia di nuove piante, realizzata grazia alla stagione delle grandi esplorazioni, si è reso necessario trovare un sistema più efficiente della memoria umana per catalogarle e studiarle scientificamente.


    Questo è il momento di definire un orto botanico, magari partendo da eventuali similitudini con il giardino botanico?

    I due termini sono sostanzialmente sinonimi. Anche di orto botanico esistono tante definizioni, la più riduttiva delle quali lo indica come un giardino aperto al pubblico nel quale le piante siano provviste di nomi scientifici. Pensando all’orto botanico per antonomasia, cioè a quello universitario, possiamo affermare che i suoi scopi sono molteplici, paragonabili a quelli di un grande museo: conservare, propagare e studiare il proprio patrimonio vegetale, che deve essere tutto completamente documentato; proteggere in particolare le piante in vie di estinzione, in modo da poterle reintrodurre nell’ambiente naturale se necessario; avere una ‘banca’ di semi da scambiare con altre istituzioni della stessa natura; fornire materiale vegetale di origine certa per ricerche scientifiche; disporre di un erbario e di una biblioteca botanica; essere aperto al pubblico e trasferire ai visitatori e, più in generale, ai cittadini, una sempre maggiore consapevolezza del mondo vegetale e della necessità della sua conservazione.


    Come mai l’Orto Botanico di Napoli, pur molto prestigioso, è nato così in ritardo rispetto ad alcuni suoi omologhi italiani ed europei?

    Un Orto privato a Napoli, frequentato da illustrissimi studiosi, fu istituito poco dopo la prima metà del ‘500 ed era quindi pressoché contemporaneo a quelli di cui ho detto sopra, ma scomparve precocemente. Il primo riferimento alla necessità di istituire un Orto Botanico pubblico a Napoli risale agli inizi del ‘600, nell’ambito di una riforma universitaria vicereale. All’epoca, tuttavia, Napoli non era più la capitale di un regno e, quindi, la necessità non fu avvertita come particolarmente pressante sotto il profilo politico. Lo ridiventò nel secolo successivo, soprattutto per l’impulso dato alla botanica napoletana dal grande scienziato Domenico Cirillo. La sua impiccagione in Piazza Mercato per la partecipazione da protagonista alla Rivoluzione del 1799 rinviò ulteriormente di qualche anno il progetto. Come conseguenza di questo secolare ritardo, però, l’Orto Botanico di Napoli è nato subito ‘moderno’, ben lontano da alcuni orti associati a ospedali che furono presenti in città.


    I direttori dell’Orto Botanico napoletano hanno, in molti casi, ‘regnato’ a lungo, a partire dal leggendario Michele Tenore, il primo e più ‘longevo’.  Si tratta di una peculiarità partenopea o è un’’abitudine universale’?

    Nel passato era più o meno un’abitudine universale perché la botanica, come le altre discipline, disponeva generalmente di una sola cattedra in ogni ateneo. Al titolare di questa cattedra era spesso assegnato, per l’intera durata della carriera, anche il ruolo di direttore dell’Orto Botanico. Oggi le cose sono cambiate e i mandati lunghissimi sono meno frequenti, anche come conseguenza dei regolamenti dei vari atenei.


    Una realizzazione di cui va particolarmente fiero della sua direzione?

    L’attività prevalente è quotidiana, fatta di piccole azioni, incrementali sul lungo periodo. Mi sono mosso prevalentemente in tre direzioni: l’informatizzazione delle collezioni (è stata avviata la digitalizzazione dell’erbario napoletano ed è stata completata la realizzazione, grazie ad alcuni dipendenti dell’orto, del catalogo digitale degli alberi); la ripresa di una politica di acquisizione di piante in natura (che include attività di raccolta e ottenimento di esemplari da altre istituzioni per fini di conservazione); il potenziamento del cosiddetto ‘public engagement’. Vado infatti molto fiero, ad esempio, degli oltre 20 mila studenti che riusciamo ad ospitare ogni anno e di molte delle manifestazioni che organizziamo.


    E il suo principale obiettivo per il prossimo futuro?

    Rendere definitivamente l’orto botanico un’istituzione scientifica moderna, che offra servizi alla comunità generale, ma che non  perda di vista l’imprescindibile necessità, contenuta nella definizione data sopra, di offrire servizi specializzati di ricerca e di tipo museale alla comunità scientifica. Ciò unito ad aspetti pratici, ma non per questo meno importanti, come la sostituzione del personale ormai in pensione (o, perché no, il suo incremento).


    Cosa hanno in comune piante, animali e noi uomini e cosa ci differenzia irrimediabilmente?

    Ciò che ci tiene insieme è una varietà di processi metabolici omogenei, governati da un DNA non tanto dissimile. Le differenze sono molteplici. Gli esseri umani, per fare un solo, triste esempio, hanno il potere di modificare, danneggiare o distruggere l’ambiente naturale in cui sono inseriti e temo che lo stiano esercitando con molto zelo.


    Le piante, in un certo senso, possono muoversi e addirittura ‘pensare’. E se avessero anche un’anima, sia pure al ‘primo stadio’?

    In quanto uomo di scienza, non mi sento, purtroppo, qualificato a parlare di anima. Quanto ai primi due punti, direi che noi animali ci muoviamo di norma nella nostra ‘interezza’, mentre le piante tendono a far muovere a distanza solo loro parti (semi, polline, propagazioni vegetative). Per quanto riguarda il concetto di pensiero, ho delle perplessità a impiegare categorie concettuali azzardate per rendere più comprensibile un esempio. Oggi è noto che le piante possono comunicare tra loro in maniera molto raffinata. Parte dei composti chimici volatili scaturiti dall’erba recisa serve, ad esempio, ad avvertire altre piante del fatto che c’è qualcosa che le sta danneggiando e a provvedere a rendersi meno appetibili agli erbivori. Più che ad un pensiero, però, mi rifarei piuttosto, in maniera non meno fascinosa, agli effetti prodotti da miliardi di anni di evoluzione.


    Quali opere di fantascienza ‘verde’ l’hanno colpita di più?

    ‘Il giorno dei trifidi’, di John Wyndham, un romanzo e un successivo film, nei quali si descrive la parabola di una nuova specie vegetale, in grado di muoversi, che invade il nostro pianeta.


    E quali capolavori della letteratura hanno messo la botanica al centro?

    La botanica è presente in molti capolavori, ma in maniera ‘laterale’. Innumerevoli, tanto da non poter isolare facilmente una citazione, sono invece le opere letterarie che anno al centro la descrizione di un ambiente naturale e quindi, in senso lato, delle piante.


    La biochimica delle piante è governata anche dalla matematica e dalla fisica?

    Direi che queste due discipline, insieme alla chimica, forniscono parte del telaio concettuale attraverso il quale interpretare i meccanismi di funzionamento delle piante.


    La perfezione del ‘frattale’ broccolo romano ha una sublime ragione estetica o rimanda ad altro?

    Ha certamente una sublime estetica, ma rimanda anche al fatto che le piante tendono a disporre le parti del proprio corpo – in particolare le foglie e le strutture da esse derivate - in modo tale da far sì che esse non si sovrappongano l’una sull’altra, per avere tutte un miglior accesso alla luce solare.


    Una passeggiata tra le piante in un territorio non inquinato è più salutare per l’attività motoria che presuppone o per il contatto diretto con i loro odori e profumi?

    Per entrambi i motivi. La medicina ha da tempo chiarito che l’attitudine con cui una persona fa le cose incide molto sull’esito delle stesse rispetto alla salute. Nel caso di una passeggiata nel verde, la gratificazione, oltre a derivare dall’aspetto fisiologico dell’attività, è certamente anche di tipo psicologico, o, se vuole, spirituale e ciò aumenta certamente, in modo misurabile, anche il benessere complessivo.


    La farmacologia attingerà dalla botanica in misura maggiore o minore in futuro?

    Da un lato, l’accesso sempre maggiore a piante che vivono in aree remote del pianeta consentirà ‘ampie sperimentazioni’ alle compagnie farmaceutiche. Da un altro lato, la farmacologia tende sempre di più a progettare molecole in laboratorio. Direi che la botanica fornirà un supporto sempre più raffinato alla farmacologia e aggiungerei che i rimedi naturali che da essa direttamente derivano, potrebbero sempre più efficacemente essere complementari ai farmaci frutto di sintesi chimica.


    In chiusura, la sua pianta preferita da osservare?

    Un bel faggio vetusto (possono superare i cinquecento anni di età), magari irpino.

     


    Ettore Zecchino

    Maurizio De Giovanni

    Nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora, ha pubblicato quattro serie di genere giallo e noir di grande successo popolare (‘Il Commissario Ricciardi’, ‘I bastardi di Pizzofalcone’, ‘Sara Morozzi’ e ‘Mina Settembre’), con seguitissime riduzioni televisive, ma anche numerose opere di narrativa, oltre ad alcuni adattamenti teatrali. Nel settembre 2021 l'’Università degli Studi di Napoli Federico II’ gli ha conferito la Laurea honoris causa in Filologia moderna. Nello stesso mese è stato premiato con il Nastro d'Argento speciale per la scrittura. Con il film di Alessandro Gassmann ‘Il silenzio grande’, tratto da un suo scritto, ha vinto il Premio Furio Scarpelli per la miglior sceneggiatura al Bif&st Bari International Film Festival 2022.

     

    Maestro, la sua Napoli sta vivendo un momento d’oro in molti campi. Si tratta di un ‘giallo’ o ha una spiegazione razionale del fenomeno?

    Credo che la risonanza culturale di Napoli sia un fatto ciclico, ma eterno. Oggi si viene a Napoli per vedere la città e non come semplice scalo per Capri, Sorrento, Pompei. Era strano prima, dal momento che Napoli ha 2.500 anni di storia e per lunghi periodi è stata una capitale, oltre ad essere urbanisticamente e paesaggisticamente una città bellissima.

    Quali, invece, i problemi immutati?

    Quelli tipici di tutte le grandi città nel sud del mondo: reddito medio basso; povertà diffusa; degrado, soprattutto nelle periferie; storico disinteresse delle istituzioni. Essendo la città metropolitana più grande del Mezzogiorno, questi problemi, in un’ottica italiana, si percepiscono più acutamente, ma non sono tanto diversi da quelli di Bari, Reggio Calabria o Messina, per fare solo alcuni esempi.

    Condivide il parere diffuso secondo il quale la città sarebbe destinata a guidare il Mediterraneo, insieme a poche altre metropoli dell’area?

    Napoli ha una posizione strategica e può contare su un grande porto. Quando, magari anche a seguito dell’attuale situazione geopolitica, l’area mediterranea diventerà più centrale in Europa, sarà naturale, per la nostra città, assurgere a un ruolo da protagonista.

    E la politica attuale le sembra all’altezza della sfida?

    La classe politica nazionale mi sembra la peggiore degli ultimi 30 anni e provvedimenti antieuropei e antimeridionali, come l’annunciata ‘autonomia differenziata’, mi rendono ancora meno fiducioso.

     

    Culturalmente, cosa distingue la sua città da altri centri italiani ed europei ad essa omogenei?

    Ho difficoltà a trovare realtà omogenee e, quindi, ad avere un termine di paragone, considerando che Napoli, con la sua area metropolitana, è un ribollire di tre milioni di persone in un territorio ad altissima densità abitativa. Anche le numerose e varie stratificazioni culturali prodottesi nel corso di 2.500 anni sono rare a rinvenirsi altrove.

    Napoli e la Campania sono indubbiamente le capitali storiche italiane della filosofia. Non dello stesso livello, pensando al passato, è la tradizione letteraria. L’estro partenopeo è tutto riversato sul teatro e sulla musica?

    Direi proprio di no. Abbiamo avuto tanti grandi romanzieri e poeti, anche dialettali, soprattutto negli ultimi due secoli. Certo, di Dante ne è esistito solo uno!

     

    Secondo un esperto della materia come Renzo Arbore, la canzone napoletana può vantare un repertorio quali-quantitativo superiore a qualsiasi altra espressione musicale popolare ‘urbana’ nel mondo, incluse le varie Chicago, New Orleans, Città del Messico, Buenos Aires, Lisbona, Siviglia. Condivide?

    Senz’altro. Largamente. Generi come il tango e il fado, solo per limitarmi a due esempi di altissima qualità musicale, non hanno potuto giovarsi di una scrittura poetica del livello di quella napoletana.

     

    Da cultore appassionato della materia, ci confida i suoi brani preferiti?

    Difficile, sarebbero troppi. Da scrittore, citerei diversi testi di poeti sublimi quali Vincenzo Russo, Libero Bovio e Salvatore Di Giacomo.

    Cantati da Roberto Murolo o da Sergio Bruni?

    Da entrambi. Si tratta, infatti, di due straordinari interpreti, che possono dirsi ‘complementari’ e che si completano a vicenda.

     

    Enrico Caruso ha diffuso la canzone napoletana nel mondo. Eppure, qualche purista storce il naso. Il suo pensiero in merito?
    Molte canzoni napoletane vanno ‘sussurrate’, ma Caruso, da grande tenore, ha cantato sempre e solo brani adatti alla sua straordinaria voce, diventando un impareggiabile testimonial di Napoli nel mondo intero.

     

    E il presente melodico partenopeo?

    Solo per una questione di gusto personale, senza assolutamente nulla togliere ai bravi professionisti contemporanei, mi fermo alla canzone ‘classica’.

     

    Quale ‘canzonetta’ ‘marottianamente’ risuonava a casa De Giovanni nei giorni precedenti alla sua nascita?

    Vorrei avere l’occasione di poterlo chiedere a mia madre, che purtroppo non c’è più. Forse, qualche motivo dei ‘Platters’, ma sono cresciuto con le canzoni napoletane.

    Venendo alla letteratura, quali sono stati i suoi ‘classici’, non solo partenopei?

    Sono innamorato della letteratura latino-americana, da Jorge Louis Borges a Gabriel Garcia Marquez, ma anche dei grandi europei, come Franz Kafka e Thomas Mann. Quanto agli italiani, sono un ammiratore, tra i tanti altri, di Guareschi, De Crescenzo e Camilleri. Quest’ultimo, in particolare, è stato, a mio parere, il più grande narratore italiano degli ultimi 50 anni.

    Per inciso, quando e come ha scoperto di ‘essere scrittore’?

    Molto tardi. Avevo quasi 50 anni e fui iscritto, per burla, da alcuni amici, ad un concorso letterario. Raccolsi la sfida e non mi sono più fermato.

    ‘Alma mater’ del terzo millennio rimane la letteratura?

    Per me, sì. Le storie sono alla base di tutto, anche del teatro e del cinema.

     

    Uno degli ultimi film di Mario Martone ripercorre la vita di Scarpetta e ha come co-protagonista proprio la canzone napoletana. La vera anima teatrale di Napoli è scarpettiana o eduardiana?

    Entrambe. L’anima di Napoli è estremamente complessa e racchiude anche molto altro, da Viviani a Ruccello a Moscato.

    Quale segno specifico ha invece lasciato il grande Totò?

    La mimica, la maschera, la nostra straordinaria capacità di esprimerci anche senza le parole.

     

    Lei è tra i pochissimi intellettuali a non aver ceduto al 'fuitevenne' eduardiano. Ci spiega le ragioni di questa tenace e benemerita ‘resistenza'?

    Se andassi via da Napoli non scriverei neanche una parola. Le mie storie risentono dell’aria che respiro e degli ‘umori’ che colgo in questa straordinaria città.

    Andando molto indietro negli anni, ‘Carosello Napoletano’, di Ettore Giannini, è stato uno dei pochissimi musical non americani a poter rivaleggiare con i grandi classici di Hollywood. Ci risiamo?

    Carosello Napoletano è un’opera d’arte, che può godere di testi che trasmettono una forte emotività. Non a caso, nella sua versione teatrale, è ancora riproposta con costante successo. Effettivamente, si tratta di un capolavoro.

     

    Finora i suoi gialli sono diventati protagonisti assoluti del piccolo schermo. Come mai il cinema si muove con maggiore circospezione?

    Perché scrivo racconti seriali, più adatti alla riduzione televisiva. Mi fa piacere, comunque, citare ‘Il silenzio grande’, tratto da un mio scritto, diretto da Alessandro Gassman e in grado di riscuotere un buon successo.

    Intende tentare una sortita diretta nel mondo della settima arte, come alcuni suoi illustri predecessori novecenteschi?

    Assolutamente no. La mia vocazione si limita alla scrittura.

    Anche in questa Napoli ‘in buona forma’ si percepisce l’angoscia sociale dell’oggi. Teme un ritorno della guerra in Europa Occidentale?

    Credo sia una paura universale ed è di tutta evidenza che il rischio ci sia. I due focolai bellici sono molto vicini e il proliferare di sovranismi e protezionismi non aiuta.

     

    ‘O sole mio’ sarebbe nata a Odessa, che, nel complesso, è una città architettonicamente italiana, come San Pietroburgo. Del resto, la canzone napoletana è sempre stata molto amata in Russia. Queste ed altre più ‘tragiche’ suggestioni potrebbero ispirarla in qualche modo?

    Credo che la leggenda di Odessa come ispiratrice sia molto da ridimensionare. In ogni caso, mi sento un narratore ‘locale’ e non sono attratto da ‘suggestioni estere’.

     

    Il ruolo dell’Unione Europea le sembra adeguato alla circostanza?

    Penso che ci sia bisogno di un’Europa ‘politica’ e vedo qualche sussulto in questa direzione, ma temo sia legato alla drammaticità dell’attuale contesto internazionale, piuttosto che ad una ferma volontà degli Stati. In ogni caso, mi sembra indispensabile lavorare per la creazione di una Difesa comune e per incrementare le politiche di crescita economica collettiva.

     

    Quanto alla guerra in Medio Oriente, la nostra capacità di incidere appare ancora meno rilevante. Eppure, il baricentro UE, secondo alcuni analisti, potrebbe spostarsi verso l’area mediterranea. Dalla crisi in corso può prendere corpo una sterzata del genere?

    Lo dicevo all’inizio dell’intervista, ma, attualmente, siamo ancora nelle mani degli Usa e recitiamo la parte di testimoni abbastanza silenziosi.

    Più realisticamente, il ruolo del Mezzogiorno può accrescersi in questa prospettiva, nonostante i pericoli da molti collegati alla possibile realizzazione della cosiddetta ‘autonomia differenziata’?

    Se, con l’autonomia differenziata, alziamo, metaforicamente parlando, un muro all’altezza di Roma, non vedo come si possa pensare ad un Paese europeo. Tra l’altro, l’Italia a due velocità sarebbe un’occasione persa anche per il Nord.

    Il centro di Napoli pullula di visitatori. Eppure, la casa natale di Giambattista Vico è malinconicamente diventata una friggitoria. Non si sta forse un poco esagerando con un certo schema di accoglienza turistica?

    Si sta esagerando con il lassismo istituzionale. Altrove si appronterebbe un museo. Non è quindi colpa della friggitoria.

    Accanto al mordi e fuggi turistico sta comunque prendendo piede una riscoperta della più varia tradizione gastronomica napoletana. Ci indica i suoi piatti del cuore?

    La genovese, il ragù, il casatiello, la pastiera. La nostra è una tra le cucine migliori del mondo, proprio perché popolare e interclassista. La pizza, poi, è un passaporto per la felicità.

    Pulcinella, dato più volte per morto, è la maschera simbolo della città anche ai nostri giorni. Come spiega il ‘fenomeno’?

    Tutti i simboli della città sono attuali e sono parte della nostra identità. Pensi al più ‘antico’ San Gennaro.

    Chi vorrebbe come allenatore della squadra di calcio cittadina l’anno prossimo?

    Maurizio Sarri, perché ha creato il Napoli più ‘bello’ degli ultimi anni.

     

    Ettore Zecchino







     

     

    Elda Morlicchio


    Rettrice dell’Università di Napoli ‘L’Orientale’ dal 2014 al 2020, già prorettrice dello stesso ateneo dal 2008 al 2014, la professoressa Elda Morlicchio è docente di Lingua e Linguistica Tedesca ed è tra i nomi più autorevoli della germanistica in Italia. Insignita del Cavalierato dell’Ordine al Merito tedesco, membro di autorevoli istituzioni culturali italo-tedesche, in passato (2013-2016) è stata presidente dell’Associazione Italiana di Germanistica. È autrice di una ottantina di saggi e curatrice della sezione dedicata ai germanismi del LEI (Lessico Etimologico Italiano). Tra le sue monografie di maggior successo: ‘La filologia germanica e le lingue moderne’; ‘Antroponimia longobarda a Salerno nel IX secolo’; ‘Introduzione allo studio della lingua tedesca’.

     

    Nata a Pompei, tra rovine ed inscrizioni romane, cresciuta a Torre Annunziata e a Scafati, ma proiettata verso studi di linguistica germanica. Ci spiega questa interessante parabola professionale ed umana?

    In effetti, la vicinanza agli scavi di Pompei e di Oplonti mi stava orientando verso l’archeologia, ma l’attività imprenditoriale di mio padre, proprietario di un’azienda conserviera, ha determinato una sterzata. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ‘70, la Germania era il primo Paese importatore di pomodori pelati e così ebbi l’occasione di conoscere e frequentare diversi partner commerciali tedeschi di mio padre. Di qui la mia curiosità per la loro lingua, acuita da suggestive puntate turistiche familiari proprio in Germania. L’amore, secondo una celebre espressione tedesca, ‘passa attraverso lo stomaco’ e il mio caso lo conferma in senso ‘letterale’, perché mi sono avvicinata al tedesco attraverso un prodotto alimentare.
    Scherzi a parte, dopo il pomodoro è subentrata la decisiva influenza esercitata su di me, ormai universitaria, dal grande maestro Luciano Zagari, un germanista tra i più brillanti della sua generazione. L’amore per il passato è però riemerso presto. I miei studi e i miei insegnamenti sono infatti da sempre incentrati sul tedesco medioevale e sulle popolazioni germaniche antiche.

    Prima rettrice universitaria italiana a succedere ad un’altra donna, sente di essere ‘entrata nella storia’, almeno della statistica?

    Si tratta, in fondo, di un piccolo e casuale dato di fatto. Registro, piuttosto, con soddisfazione una crescita lenta ma costante del numero delle rettrici. Nel 2014 eravamo solo in sei, ma, evidentemente, questo piccolo manipolo ha ‘’aperto una breccia’’. Oggi una donna dirige il più grande ateneo italiano (‘La Sapienza’ di Roma)!

     

    Rettore o rettrice?

    Prima del 2014 vigeva il maschile, ma noi decidemmo di sottolineare, anche attraverso la lingua, la normalità di una nomina del genere. All’epoca, la scelta fece scalpore, ma avemmo il conforto dell’Accademia della Crusca. A distanza di dieci anni, tutte le donne al timone di un’università vengono chiamate rettrici.

    Parità di genere a parte, quali i ricordi più vividi di un’esperienza così intensa?
    Come rettrice de ‘L’Orientale’ ho avuto la fortuna di intercettare tematiche complesse e, spesso, per me nuove, sorte da un dialogo costante con tutte le aree del mondo. I miei orizzonti si sono così notevolmente ‘allargati’.

     

    Cosa si intende per lingue germaniche?

    In italiano, l’aggettivo germanico ha un significato ambiguo, poiché viene riferito tanto alla cultura tedesca quanto alle antiche popolazioni stanziate a nord delle Alpi, che i Romani, pensiamo ad esempio a Tacito, chiamavano appunto Germani. In linguistica l’aggettivo designa una lingua ricostruita, dalla quale derivano tutte le lingue documentate, da quelle ormai estinte, come gotico e longobardo, a quelle tuttora parlate: il tedesco, le lingue nordiche, il nederlandese, e l’inglese, quest’ultimo con una notevole presenza di elementi romanzi entrati in passato tramite il francese.

    Il tedesco è percepito da molti come una lingua particolarmente ‘dura’, o, comunque, poco musicale. Eppure, è la lingua dei grandi Lieder di Schubert e delle sublimi aree wagneriane!

    Lo ricordo sempre anche io. Forse il pregiudizio deriva, almeno in parte, dall’accostamento, tuttora frequente, del tedesco alle vicende belliche, soprattutto del periodo nazista. Bisogna, tuttavia, considerare anche che la frequenza con cui in tedesco ricorrono le vocali è inferiore rispetto all’italiano e questo potrebbe contribuire a dare l’idea di una lingua con troppe consonanti e quindi meno ‘musicale’.

     

    Ci rivela la sua opera letteraria preferita in lingua tedesca?

    Il ‘Faust’ di Goethe, per la sua straordinaria complessità sotto il profilo letterario e filosofico, ma anche perché è la prima che ho affrontato all’università, da giovane studentessa. Aggiungerei alcuni romanzi di Thomas Mann, per le descrizioni di atmosfere e personaggi.

     

    E leggerli in italiano fa lo stesso effetto?
    Grazie alla grande scuola dei traduttori dal tedesco che può vantare il nostro Paese, i testi in traduzione consentono di apprezzare gli originali. Dal punto di vista strettamente lessicale, tuttavia, la versione italiana non consente di cogliere la bellezza della capacità di ‘formare parole’ che è propria della lingua tedesca.

    Dal 700 in poi il tedesco ha ‘dominato’ in ambiti umanistici, come la filosofia, ma ha imperversato anche nelle scienze naturali. Oggi, questo ‘primato’ resiste in qualche ambito?
    Il tedesco è ancora la lingua della filosofia e, in misura minore, degli studi classici e del diritto, ma in tutti gli altri campi la lingua della comunicazione in contesto accademico è inesorabilmente l’inglese.

    Il francese è considerato la lingua dell’eleganza, soprattutto salottiera. In quale contesto il tedesco può risultare attrattivo oggi?

    Direi proprio in quel mondo della musica, di cui parlavamo. Penso, soprattutto, alla grande tradizione lirica.

     

    In percentuale, quanto c’è di comune tra lingue romanze e lingue germaniche?

    Sono lingue indoeuropee e quindi hanno una base comune, ma hanno iniziato molto presto a divergere, per la fonetica, la morfologia e la sintassi. In generale possiamo dire che le lingue germaniche tendono ad essere sintetiche, mentre quelle romanze sono piuttosto analitiche.

     

    Parlare perfettamente un’altra lingua non limita mai il percorso di conoscenza della propria?

    Piuttosto la arricchisce. L’apprendimento di un’altra lingua costringe, infatti, ad un continuo approfondimento della propria. Capita spesso che studenti di lingue straniere prendano coscienza di alcune strutture e caratteristiche della loro lingua madre proprio dal confronto con un’altra lingua.

     

    Oggi è più facile integrare in patria la conoscenza di una lingua precedentemente appresa all’estero. In ambito universitario si rischia di ridimensionare la presenza dei mediatori linguistici in carne ed ossa?
    Quando ho cominciato a studiare il tedesco, agli inizi degli anni ‘70, la figura del docente madrelingua era fondamentale, ma rimane tuttora importante e infatti ‘L’Orientale’ investe molto sui collaboratori ed esperti linguistici. Una lingua è fatta anche di gestualità, di mimica e di mille variazioni dipendenti dal contesto, elementi che non si ritrovano in un supporto informatico o multimediale.

     

    L’Università ‘L’Orientale’ di Napoli deve la sua fama ai pioneristici studi di sinologia. Attualmente, il prestigio in questo campo è intatto?

    Senza dubbio. Ancora oggi frequentano studenti provenienti da altre regioni perché attratti da questa nostra specifica eccellenza.

     

    La globalizzazione e i vari processi della contemporaneità stanno uccidendo, anno dopo anno, moltissimi idiomi regionali. Secondo alcuni, il fenomeno costituisce la maggiore perdita culturale nell’era dell’Intelligenza Artificiale. La pensa allo stesso modo?
    Credo che per ogni lingua che muore scompaia un pezzo significativo del patrimonio culturale dell’umanità. Certamente l’uso dell’inglese, anche laddove non sarebbe necessario, rischia di portare all’impoverimento progressivo delle altre lingue.

     

    Eppure, quello della Torre di Babele nasce come mito ‘negativo’, come atto di punizione divina!

    Effettivamente si tratta di una punizione che condanna i popoli alla reciproca incomprensione. Miti a parte, una lingua unica sarebbe inevitabilmente molto povera. Basti pensare al naufragio dell’esperanto, consegnato quasi subito al mondo delle utopie. Non dimentichiamo che dietro una lingua c’è una comunità di parlanti, con la sua storia e cultura. È interessante ricordare che i britannici temono che il cosiddetto ‘inglese globale’ possa danneggiare la loro lingua madre. Nelle condizioni attuali, utilizzare una lingua universale comporterebbe, a tacer d’altro, la difficoltà di esprimere l’ironia e molte altre sottigliezze della comunicazione.

     

    La struttura di una lingua rispecchia le caratteristiche ‘antropologiche’ del popolo che la utilizza?

    No. Si tratta di un mito privo di fondamento.

    Il palese senso di colpa per l’enormità dell’Olocausto indirizza ancora oggi il percorso di formazione culturale standard del tedesco medio o le ultime generazioni si sentono affrancate da questo fardello?
    Ancora oggi, in Germania, si riflette molto sugli errori commessi negli anni bui e la rimozione del passato, per fortuna, è un fenomeno che non esiste. Le nuove generazioni hanno tuttavia il vantaggio di essere nate in un mondo in cui le colpe risalgono nel tempo oltre i loro nonni. In questo senso, quindi, soffrono meno.

     

    La Germania è ingiustamente ‘snobbata’ da un punto di vista turistico. Ci rivela i suoi itinerari del cuore?

    Il nord del Paese, con i suoi paesaggi ventosi e la città di Amburgo. E poi Berlino, paragonabile oggi, per vivacità e dinamismo, alla Londra degli anni ‘60. Infine, la Valle del Reno e la Baviera, in primo luogo Monaco.

     

    Chiudendo in leggerezza, cosa ci può dire della cucina tedesca?
    Posso dire che, come la nostra, presenta una grande varietà regionale. Certamente le patate rappresentano un cibo base nella loro cucina, ma vengono preparate in tanti modi diversi, come del resto i salumi, che gli italiani impropriamente identificano con un solo tipo, il würstel. Nel nord c’è un’apprezzabile cucina di mare, con pesci diversi, ma non meno gustosi, di quelli del nostro Mediterraneo. Mi sento infine di dire che il pane, in tutte le sue numerosissime versioni, è un’autentica eccellenza.

     

    Ettore Zecchino

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