I protagonisti delle due culture

    Paolo Caputo

    Paolo Caputo

    Nato a Napoli nel 1964, è professore ordinario di Botanica Sistematica presso l’Università ‘Federico II’, direttore dell’Orto Botanico del capoluogo campano e responsabile dell’Herbarium Neapolitanum. Laureatosi con lode in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Napoli (oggi ‘Federico II’), ha poi trascorso un periodo di due anni presso la City University di New York e il New York Botanical Garden, grazie a una borsa di studio Fulbright. I suoi studi si concentrano sulla tassonomia e sulla sistematica molecolare di vari gruppi di piante vascolari e si occupa altresì di nomenclatura delle angiosperme e di biodeterioramento di beni artistici. La sua produzione scientifica conta oltre 100 articoli in extenso. Ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali, tra i quali un lungo mandato come componente del Consiglio Universitario Nazionale.

     

    Professore, quando e come è nata la sua passione per la botanica?

    Quando ero un ancora un bambino e accompagnavo mio padre (botanico) in montagna, nel corso di passeggiate non ancora ‘scientifiche’, ma già piene di domande e di curiosità. Nonostante ciò, molti anni dopo, chiamato a una scelta definitiva, fui incerto fino all’ultimo. Da ‘secchione’ provetto ero nelle condizioni di scegliere vari indirizzi di studio, mentre ragioni pratiche spinsero i miei genitori a sconsigliarmi il lungo percorso della laurea in medicina. Scelsi, infine, con convinzione, le scienze naturali, ma erano in ballo anche discipline lontane dalle amate piante, come giurisprudenza, economia e filosofia.


    Non crede che la sua disciplina sia un tantino sottorappresentata nei media?

    Non direi, quanto meno non più tanto. Semmai, non si parla specificamente di botanica, ma l’interesse per le piante sta crescendo ovunque, a seguito di alcuni allarmi, come quello ricorrente sull’invasione di specie aliene nei nostri giardini, ma anche per la consapevolezza diffusa della necessità di preservare le ultime foreste vetuste del nostro pianeta.


    Una maggiore consapevolezza dell’importanza del patrimonio verde ci aiuterebbe ad affrontare il tragico problema del riscaldamento globale?

    Senza alcun dubbio. Si stanno cominciando a diffondere alcune idee di base su come i vegetali potranno aiutarci, ma la ricerca è fortunatamente più avanti rispetto ai media. Ciò che servirebbe maggiormente è la diffusione capillare di una coscienza ‘verde’, sostenuta dalla scienza, a partire dalle scuole, investendo, ancora più a monte, sulla formazione dei docenti.


    E cosa dire riguardo al suo potenziale ruolo nella prevenzione delle pandemie?

    Direttamente, molto poco. Resta tuttavia evidente che una delle ragioni principali della diffusione di zoonosi ad alto potenziale pandemico è la continua e progressiva trasformazione, di origine antropica, degli habitat naturali di diversi animali selvatici. I frequenti disboscamenti e l’avanzata inarrestabile dell’agricoltura in alcune aree del mondo mettono inevitabilmente l’uomo a contatto ravvicinato con alcuni di questi, favorendo il famigerato salto di specie da parte degli agenti patogeni.


    Facendo un passo indietro, ci definisce la sua disciplina?

    Lo studio degli organismi fotosintetici, a partire dai microorganismi più semplici, passando per le alghe e arrivando a tutte le piante che vivono sul nostro pianeta.


    E, più nel dettaglio, la sistematica?

    Ci sono tuttora difficoltà nel dare una definizione univoca, per via dell’ampia sovrapposizione con altre discipline, come la tassonomia. In linea generale e approssimando, la si può comunque descrivere come lo studio delle relazioni di discendenza tra gli organismi, includendo le tecniche per descrivere nuove specie, per inserirle all’interno di una classificazione e per denominarle formalmente, impiegando un insieme di regole codificate.


    L’onnipresenza del latino nella tassonomia e nella sistematica dovrebbe suggerirci un’origine ‘classica’ delle due discipline o piuttosto un suo grande ‘rilancio’ medievale?

    Né l’uno né l’altro. L’attitudine ad osservare scientificamente la realtà è nata dopo la prima metà dello scorso millennio. La scelta del latino è dovuta solo al fatto che tale lingua, ancora nel ‘700 inoltrato, era la lingua di comunicazione universale dei dotti.


    Chi sono da annoverare come i pionieri della botanica nella storia?

    Solo per citarne alcuni, indicherei Dioscoride e Plinio il Vecchio tra i classici, Alberto Magno tra i medievali. Costoro, pur consegnandoci raffinate descrizioni di numerose piante, erano, tuttavia, ancora profondamente legati a un interesse di natura farmacologica. La botanica, d’altra parte, è stata ancillare alla medicina fino a tutto il ‘700. Inoltre, gli autori menzionati non impiegavano metodi propriamente scientifici, che erano ancora al di là da venire. Pier Andrea Mattioli, a cavallo della metà del XVI secolo, è stato uno dei primi botanici moderni; a partire da questo periodo e per i secoli successivi, molti botanici hanno accompagnato spedizioni esplorative e scientifiche, organizzate dai maggiori governi europei. La sintesi si è raggiunta nel Secolo dei Lumi, con lo svedese Carlo Linneo, che è stato l’autore del monumentale sistema di classificazione e nomenclatura delle piante, parte del quale è in uso tuttora.


    Quale peso ha avuto nel passato e quale peso ha nel presente la scuola italiana?

    I primi orti botanici sono nati in Italia, a Pisa, Padova e Firenze, poco prima della metà del sedicesimo secolo. Il già ricordato Pier Andrea Mattioli era tecnicamente italiano e uno stuolo di suoi colleghi ha contribuito a gettare le fondamenta della botanica moderna. Anche oggi la scuola italiana si fa onore, ma, con la globalizzazione, è arduo parlare di scuole nazionali. Le notizie sulle nuove scoperte si diffondono, infatti, in tempo reale nel mondo. E, fortunatamente, i cancelli della ricerca sono sempre i primi ad aprirsi.


    E, in particolare, quella napoletana?

    La scuola napoletana si è caratterizzata a lungo per il suo contributo dato alla sistematica, soprattutto con riferimento all’esplorazione botanica e alla conoscenza della flora centromeridionale. In tempi più recenti, a questi interessi si sono aggiunti lo studio delle alghe, delle cicadee, (antiche piante a seme tropicali in via di estinzione) e un interesse specifico verso la filogenesi e l’evoluzione.


    Sono nati prima gli orti botanici o gli studi scientifici sulle piante?

    Direi contemporaneamente, anche se all’inizio tale studio aveva, come già accennato, un prevalente interesse medico. Tassonomia e sistematica sono diventate importanti a partire dal ‘600, quando, a seguito della scoperta di migliaia di nuove piante, realizzata grazia alla stagione delle grandi esplorazioni, si è reso necessario trovare un sistema più efficiente della memoria umana per catalogarle e studiarle scientificamente.


    Questo è il momento di definire un orto botanico, magari partendo da eventuali similitudini con il giardino botanico?

    I due termini sono sostanzialmente sinonimi. Anche di orto botanico esistono tante definizioni, la più riduttiva delle quali lo indica come un giardino aperto al pubblico nel quale le piante siano provviste di nomi scientifici. Pensando all’orto botanico per antonomasia, cioè a quello universitario, possiamo affermare che i suoi scopi sono molteplici, paragonabili a quelli di un grande museo: conservare, propagare e studiare il proprio patrimonio vegetale, che deve essere tutto completamente documentato; proteggere in particolare le piante in vie di estinzione, in modo da poterle reintrodurre nell’ambiente naturale se necessario; avere una ‘banca’ di semi da scambiare con altre istituzioni della stessa natura; fornire materiale vegetale di origine certa per ricerche scientifiche; disporre di un erbario e di una biblioteca botanica; essere aperto al pubblico e trasferire ai visitatori e, più in generale, ai cittadini, una sempre maggiore consapevolezza del mondo vegetale e della necessità della sua conservazione.


    Come mai l’Orto Botanico di Napoli, pur molto prestigioso, è nato così in ritardo rispetto ad alcuni suoi omologhi italiani ed europei?

    Un Orto privato a Napoli, frequentato da illustrissimi studiosi, fu istituito poco dopo la prima metà del ‘500 ed era quindi pressoché contemporaneo a quelli di cui ho detto sopra, ma scomparve precocemente. Il primo riferimento alla necessità di istituire un Orto Botanico pubblico a Napoli risale agli inizi del ‘600, nell’ambito di una riforma universitaria vicereale. All’epoca, tuttavia, Napoli non era più la capitale di un regno e, quindi, la necessità non fu avvertita come particolarmente pressante sotto il profilo politico. Lo ridiventò nel secolo successivo, soprattutto per l’impulso dato alla botanica napoletana dal grande scienziato Domenico Cirillo. La sua impiccagione in Piazza Mercato per la partecipazione da protagonista alla Rivoluzione del 1799 rinviò ulteriormente di qualche anno il progetto. Come conseguenza di questo secolare ritardo, però, l’Orto Botanico di Napoli è nato subito ‘moderno’, ben lontano da alcuni orti associati a ospedali che furono presenti in città.


    I direttori dell’Orto Botanico napoletano hanno, in molti casi, ‘regnato’ a lungo, a partire dal leggendario Michele Tenore, il primo e più ‘longevo’.  Si tratta di una peculiarità partenopea o è un’’abitudine universale’?

    Nel passato era più o meno un’abitudine universale perché la botanica, come le altre discipline, disponeva generalmente di una sola cattedra in ogni ateneo. Al titolare di questa cattedra era spesso assegnato, per l’intera durata della carriera, anche il ruolo di direttore dell’Orto Botanico. Oggi le cose sono cambiate e i mandati lunghissimi sono meno frequenti, anche come conseguenza dei regolamenti dei vari atenei.


    Una realizzazione di cui va particolarmente fiero della sua direzione?

    L’attività prevalente è quotidiana, fatta di piccole azioni, incrementali sul lungo periodo. Mi sono mosso prevalentemente in tre direzioni: l’informatizzazione delle collezioni (è stata avviata la digitalizzazione dell’erbario napoletano ed è stata completata la realizzazione, grazie ad alcuni dipendenti dell’orto, del catalogo digitale degli alberi); la ripresa di una politica di acquisizione di piante in natura (che include attività di raccolta e ottenimento di esemplari da altre istituzioni per fini di conservazione); il potenziamento del cosiddetto ‘public engagement’. Vado infatti molto fiero, ad esempio, degli oltre 20 mila studenti che riusciamo ad ospitare ogni anno e di molte delle manifestazioni che organizziamo.


    E il suo principale obiettivo per il prossimo futuro?

    Rendere definitivamente l’orto botanico un’istituzione scientifica moderna, che offra servizi alla comunità generale, ma che non  perda di vista l’imprescindibile necessità, contenuta nella definizione data sopra, di offrire servizi specializzati di ricerca e di tipo museale alla comunità scientifica. Ciò unito ad aspetti pratici, ma non per questo meno importanti, come la sostituzione del personale ormai in pensione (o, perché no, il suo incremento).


    Cosa hanno in comune piante, animali e noi uomini e cosa ci differenzia irrimediabilmente?

    Ciò che ci tiene insieme è una varietà di processi metabolici omogenei, governati da un DNA non tanto dissimile. Le differenze sono molteplici. Gli esseri umani, per fare un solo, triste esempio, hanno il potere di modificare, danneggiare o distruggere l’ambiente naturale in cui sono inseriti e temo che lo stiano esercitando con molto zelo.


    Le piante, in un certo senso, possono muoversi e addirittura ‘pensare’. E se avessero anche un’anima, sia pure al ‘primo stadio’?

    In quanto uomo di scienza, non mi sento, purtroppo, qualificato a parlare di anima. Quanto ai primi due punti, direi che noi animali ci muoviamo di norma nella nostra ‘interezza’, mentre le piante tendono a far muovere a distanza solo loro parti (semi, polline, propagazioni vegetative). Per quanto riguarda il concetto di pensiero, ho delle perplessità a impiegare categorie concettuali azzardate per rendere più comprensibile un esempio. Oggi è noto che le piante possono comunicare tra loro in maniera molto raffinata. Parte dei composti chimici volatili scaturiti dall’erba recisa serve, ad esempio, ad avvertire altre piante del fatto che c’è qualcosa che le sta danneggiando e a provvedere a rendersi meno appetibili agli erbivori. Più che ad un pensiero, però, mi rifarei piuttosto, in maniera non meno fascinosa, agli effetti prodotti da miliardi di anni di evoluzione.


    Quali opere di fantascienza ‘verde’ l’hanno colpita di più?

    ‘Il giorno dei trifidi’, di John Wyndham, un romanzo e un successivo film, nei quali si descrive la parabola di una nuova specie vegetale, in grado di muoversi, che invade il nostro pianeta.


    E quali capolavori della letteratura hanno messo la botanica al centro?

    La botanica è presente in molti capolavori, ma in maniera ‘laterale’. Innumerevoli, tanto da non poter isolare facilmente una citazione, sono invece le opere letterarie che anno al centro la descrizione di un ambiente naturale e quindi, in senso lato, delle piante.


    La biochimica delle piante è governata anche dalla matematica e dalla fisica?

    Direi che queste due discipline, insieme alla chimica, forniscono parte del telaio concettuale attraverso il quale interpretare i meccanismi di funzionamento delle piante.


    La perfezione del ‘frattale’ broccolo romano ha una sublime ragione estetica o rimanda ad altro?

    Ha certamente una sublime estetica, ma rimanda anche al fatto che le piante tendono a disporre le parti del proprio corpo – in particolare le foglie e le strutture da esse derivate - in modo tale da far sì che esse non si sovrappongano l’una sull’altra, per avere tutte un miglior accesso alla luce solare.


    Una passeggiata tra le piante in un territorio non inquinato è più salutare per l’attività motoria che presuppone o per il contatto diretto con i loro odori e profumi?

    Per entrambi i motivi. La medicina ha da tempo chiarito che l’attitudine con cui una persona fa le cose incide molto sull’esito delle stesse rispetto alla salute. Nel caso di una passeggiata nel verde, la gratificazione, oltre a derivare dall’aspetto fisiologico dell’attività, è certamente anche di tipo psicologico, o, se vuole, spirituale e ciò aumenta certamente, in modo misurabile, anche il benessere complessivo.


    La farmacologia attingerà dalla botanica in misura maggiore o minore in futuro?

    Da un lato, l’accesso sempre maggiore a piante che vivono in aree remote del pianeta consentirà ‘ampie sperimentazioni’ alle compagnie farmaceutiche. Da un altro lato, la farmacologia tende sempre di più a progettare molecole in laboratorio. Direi che la botanica fornirà un supporto sempre più raffinato alla farmacologia e aggiungerei che i rimedi naturali che da essa direttamente derivano, potrebbero sempre più efficacemente essere complementari ai farmaci frutto di sintesi chimica.


    In chiusura, la sua pianta preferita da osservare?

    Un bel faggio vetusto (possono superare i cinquecento anni di età), magari irpino.

     


    Ettore Zecchino


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