La morte di tanti ammalati di COVID-19 ha direttamente a che fare con un particolare ‘salto di specie’, avvenuto circa 50mila anni fa, quando la preistoria registrò la prima unione di noi Sapiens con i Neanderthal. Da quel momento, infatti, tra le caratteristiche del nostro DNA è emersa la predisposizione a sviluppare una forma grave di malattia da coronavirus. E, considerando la permanente presenza di geni neandertaliani dall’1% fino ad oltre il 3% dei patrimoni genetici di noi euroasiatici degli anni Duemila, si spiega una certa nostra vulnerabilità al COVID 19, per motivi ‘simmetrici’ molto meno registrata nelle popolazioni africane.
La recente scoperta è alla base di ‘Le impronte di Neanderthal. Come la scienza ricostruisce il passato e disegna il futuro’, del professore Giuseppe Remuzzi (editore Solferino), che, da bergamasco doc, deve essere rimasto particolarmente colpito da questo studio, fino ad elevarlo a titolo di una delle sue ultime opere di alta divulgazione scientifica. Certo – precisa più volte Remuzzi - l’eredità di questo incontro è molto più complessa e articolata e include vantaggi e svantaggi, più o meno compensati e di gran lunga più importanti della sola vicenda virale, ma, in questo caso, il richiamo all’attualità è particolarmente forte. Tale antico rapporto può essere stato occasionato da puro istinto ferino o da curiosità compiutamente ed ‘evolutamente’ umana, ma, in ogni caso, per Remuzzi, ha avuto a che fare con la genetica. Proprio il DNA può dirsi, infatti, il vero protagonista del libro, capace, come dimostra l’autore, di traghettare la vita verso sentieri talvolta impervi o apparentemente impenetrabili, ma sempre razionali.
L’opera, scritta in piena pandemia, ha il coraggio di non prescindere dal COVID-19, destinatario di pagine che si apprezzano ancora di più oggi per lucidità e lungimiranza, ma mai se ne fa schiacciare, portando il lettore non specializzato su e giù tra le varie primizie della ricerca, non solo genetica, offrendo spiegazioni e risposte alle curiosità più varie, da quelle strettamente cliniche, a quelle sociali e storiche. Si parla, ad esempio, di geni o meccanismi neuronali che predispongono all’aggressività, all’onestà, alla curiosità, alla creatività, all’intelligenza, alla socievolezza, naturalmente all’amore. Ma anche della sorprendente forza del sesso debole o dell’universale capacità umana di riconoscere ‘fisiognomicamente’ un ricco, fino all’antico dibattito tra predeterminazione e libero arbitrio. Il tutto, partendo da un’analisi sulle origini della vita e sulla sua eventuale riproducibilità, tema dei temi per le scienze biologiche.
L’approccio non è mai deterministico, e infatti, a ben vedere, sembra portare a un trionfo dell’epigenetica, branca della scienza sempre più in auge, fondata sull’analisi dell’interazione tra geni e ambiente. Un collegamento considerato ormai cruciale e che rafforza la missione dello scienziato-divulgatore Remuzzi, laicamente in fertile dialogo con il Papa Francesco dell’Enciclica ‘Laudato sì’, citatissima nel libro e, per certi versi, considerata quasi alla stregua di una via comune da seguire. Con ‘Le impronte di Neanderthal’, d’altra parte, il professore Remuzzi, apparentemente immerso nella stringente attualità delle ricerche più innovative e proiettato, gioco forza, verso il futuro prossimo delle loro applicazioni, non rinuncia, in realtà, a mostrarci come la scienza sia in grado di ricostruire il passato. E lo fa anche in senso strettamente storico, spiegandoci che le scienze naturali offrono costantemente all’archeologia e all’antropologia nuove, formidabili, lenti per osservare vicende altrimenti immerse nel buio. Statuendo, ad esempio, l’inesistenza di un’etnia celtica. O spiegando che è stato l’uomo cacciatore a ‘rimpicciolire i grandi mammiferi’.
La testardaggine dei numeri, talvolta foriera di non buone prospettive in vari campi della vita umana, a partire dalle implacabili proiezioni sul riscaldamento globale e sugli squilibri demografici in corso, non fa tuttavia perdere al professore Remuzzi l’ottimismo tipico dello scienziato, nonostante il bellissimo brano citato di un Galileo deluso dalla sconfitta del ‘fondato ragionamento’, a vantaggio delle ‘inveterate posizioni’.
L’umanità, sembra proporre l’autore, deve sempre più aprirsi alla scienza e alle opportunità e conoscenze che essa sa offrire, in modo da scongiurare, o almeno temperare i suoi stessi, non pochi ‘effetti collaterali’, pur sempre in agguato. E deve farlo in un’ottica leopardiana rovesciata, aiutando la Natura (sive DNA?) a perpetuare nel miglior modo possibile la nostra specie. L’immortalità, ma anche il compassionevole surrogato di una super-longevità di noi singoli uomini, è infatti incompatibile con le leggi della genetica che, imperiose, ci governano da sempre.
Ettore Zecchino