Estratto da un celebre discorso pronunciato all'Athénée Royal di Parigi nel febbraio del 1819, il saggio ‘La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni’ di Benjamin Constant (editore Einaudi) è un libretto di poche, ma densissime pagine, capace di sistematizzare temi dibattuti per secoli, e, al tempo stesso, di aprire una nuova pagina della storia, di quella del liberalismo in particolare. In questo scritto Constant sostiene che la libertà presso i popoli antichi si misurava, essenzialmente, con riguardo al livello di partecipazione alla vita pubblica. Si trattava, quindi, ad ogni evidenza, di una libertà riferita al cittadino, soprattutto nell’accezione greca di abitante della ‘polis’, e non all’individuo. Una libertà, quindi, intesa esclusivamente nella sua accezione in seguito definita, con qualche approssimazione, ‘positiva’, come capacità di gestione collettiva della cosa pubblica, a vantaggio della quale andavano sacrificati eventuali impulsi a un suo trasferimento nella sfera ‘privata’. All’opposto, la libertà dei moderni è, (sempre secondo una definizione storica) ‘negativa’, in quanto riferita alla garanzia per l’uomo (all’epoca di Constant, da intendere come persona di genere maschile), di non essere ostacolato dall’autorità pubblica in tutti gli aspetti della propria vita non nocivi alla comunità. Una differenza enorme, eppure, secondo Constant, non compresa dai giacobini, che pretendevano di fare la rivoluzione in nome di una libertà ormai anacronistica. La società moderna è infatti estremamente più articolata ed estesa, a partire dall’aspetto puramente dimensionale ed anagrafico. Non si può, quindi, deliberare collettivamente in piazza, come invece avveniva nell’agorà greca. I cittadini moderni, inoltre, non dispongono di schiavi, ai quali delegare le incombenze quotidiane, per dedicarsi in via quasi esclusiva alla vita pubblica. La società moderna è, tra l’altro, fondata sul commercio, visto come un’evoluzione della guerra, alla base, invece, della società antica. E il commercio, contrariamente alla guerra, non prevede interruzioni. L’uomo moderno, quindi, non può mai sottrarsi alle sue occupazioni private, dalle quali attinge le proprie ricchezze e i propri agi, di cui vuole poter disporre liberamente. Naturalmente, si affretta a precisare Constant, neppure l’uomo moderno si può consentire il lusso del disinteresse rispetto alla cosa pubblica. Di qui, la fortuna dell’istituto della rappresentanza, capace di garantire a tutti una partecipazione, sia pur indiretta, alle attività di guida e di governo di un Paese, per altro, nella visione di Constant, riferita pure alle amministrazioni territoriali. D’altra parte, il ricorso eccessivo a quest’istituto può pregiudicare la natura veramente libera di un popolo, esponendolo, anche in assenza di vere e proprie derive tiranniche, a degenerazioni oligarchiche o a forme più o meno velate di dittatura, della maggioranza, o, addirittura, di singole minoranze. Un pericolo assoluto, ben messo a fuoco anni dopo da Alexis de Tocqueville, capace di vanificare qualsiasi aspirazione alla libertà individuale, tanto cara ai moderni. Ecco, quindi, che, con buona pace di tanti autorevoli interpreti di Constant, le due libertà nel pensiero dell’autore sono, in realtà fortemente interconnesse. Per Constant, in particolare, non si può parlare di libertà in termini assoluti quando una società umana non riesce a mantenere il giusto equilibrio tra queste due sue declinazioni.
Il carattere dirompente del testo e l’acume di alcune sue tesi hanno, come spesso capita in questi casi, consentito interpretazioni differenti, a volte del tutto contrastanti, di quest’opera, ora letta in chiave marxista come una manifestazione di conservatorismo borghese, ora come una delle più riuscite celebrazioni di una liberal-democrazia da compiersi. In realtà, Benjamin Constant, liberale convinto ed estimatore di Adam Smith, ma non strettamente liberista, sembra, al riguardo, mantenersi su un piano problematico. Da un lato, infatti, pare presumere la democrazia come sfondo ideale per un pieno sviluppo storico delle idee liberali, dall’altro, con la netta preferenza accordata alla libertà individuale, sembra ammonire che liberalismo e democrazia siano costrette a coabitare, ma mantenendo sempre proprie evidenti specificità e differenti finalità ultime.
Come tutte le opere di questo spessore, ‘La libertà degli antichi’ genera continui dibattiti, anche a distanza di due secoli dalla sua pubblicazione, legittimando anche occasionali e non infondati ridimensionamenti. Come quelli operati da chi rimprovera l’autore per una disamina del mondo antico troppo parziale ed imprecisa, o forse, troppo modellata sulla Atene di Pericle o, alternativamente, sulla Sparta degli efori. Come non rimanere perplessi, infatti, rispetto a una ‘standardizzazione’ tra polis greca e repubblica romana? Come negare la presenza, anche nel mondo antico, almeno in quello greco-romano, più direttamente preso in esame dall’autore, di libertà individuali, che non si limitano certo allo sviluppo commerciale di Atene, dall’autore elevata a realtà (solo per alcuni aspetti) comparabile con quella moderna? E come non citare almeno Hegel e le sue considerazioni sull’invenzione romana del diritto privato?
In realtà, Constant, a leggere bene il suo denso saggio, al netto di semplificazioni e ‘compressioni’ dovute alla necessaria sintesi oratoria, sembra suggerire una sostanziale coincidenza degli aneliti e delle esigenze di libertà degli antichi e dei moderni, incamminati su percorsi diversi ‘solo’ per la notevole diversità del quadro storico sottostante. Insomma, anche gli antichi volevano poter raggiungere indisturbati il massimo del godimento possibile, ma, in una società basata sulla schiavitù, massimo godimento era, probabilmente, il poter essere liberi, nell’accezione basica del termine, e rimanere in questo stato quanto più a lungo possibile. Condizioni garantite solo dal pieno sviluppo della propria partecipazione pubblica, in grado di motivare il proprio impegno diretto contro il rischio di schiavitù esterne (il cittadino greco combatte per se le guerre e per questo riesce a esprimere frequenti ‘eroismi’) ed interne, come antidoto a derive autoritarie e oligarchiche del potere.
Anche quello della libertà, sembra volerci dire Constant, è un cammino evolutivo, ma la sua intelligenza, definita elogiativamente illuministica, non poteva prevedere la beffa di una storia che avrebbe sconfessato alcuni dei presupposti di questo libro. Il commercio, ad esempio, sarà pure un’evoluzione della guerra, ma di certo non è riuscito a impedire le insuperate tragedie belliche novecentesche, né i feroci totalitarismi fioriti come loro maggiori cause ed effetti. In fondo, ‘romanticamente’, il passato ha in sé elementi del presente e anticipazioni del futuro.
Dunque, Benjamin Constant, campione del Romanticismo in letteratura, nell'analisi storica era un illuminista o un romantico?
Ettore Zecchino