Invito alla lettura

    Are you going to al-Quds? Intrigo in Terra Santa

    Ha la statura, la corporatura e l’età dell’ultimo Ethan Hunt, conosce a fondo i lussi e i piaceri della vita come James Bond, ma ricorda molto da vicino i Sam Spade e i Philip Marlowe della letteratura e della cinematografia hard-boiled, vanto della Hollywood classica. Si chiama irriverentemente Issa (come, secondo un’etimologia controversa, Gesù in ambito musulmano), ed è arabo-israeliano, ma vive grazie alla penna di un italiano, anzi, un campano doc, come l’ambasciatore Cosimo Risi, storico amico di Biogem, sorprendente debuttante in un giallo internazionale.

     ‘Are you going to al-Quds? Intrigo in Terra Santa’ (Europa Edizioni), è forse solo il primo capitolo di una serie crime, destinata ad ampliare il già ricco panorama italiano in materia. O meglio, a completarlo, vista la tendenza dei gialli nostrani più letti a dare il meglio di sé nella talentuosa evocazione glocal di realtà fortemente caratterizzate, come la Sicilia di Montalbano, elegantemente pennellata da Andrea Camilleri, o la Napoli del Commissario Ricciardi, di Maurizio De Giovanni. O ancora, come la fusione tra i due mondi, compresenti nel sicilianissimo bastardo di Pizzofalcone, Giuseppe Lojacono, altra espressione del talento creativo di De Giovanni. E proprio a questi due autori, tra i tanti giallisti affermati di casa nostra, può guardare Cosimo Risi, come Camilleri debuttante in età avanzata, e come De Giovanni, suo buon amico, partenopeo per studi e passioni, sia pure salernitano di nascita.

    Le analogie con questi possibili modelli finiscono qui, vista la natura dichiaratamente cosmopolita ed internazionale del nostro racconto che, sin nel titolo, evidenzia un melting-pot non solo linguistico. Se infatti al-Quds (la Santa) è il nome arabo di Gerusalemme, l’are you going che la precede altro non è che la citazione monca di un brano di Pat Metheny, celebre chitarrista jazz statunitense, ascoltato, in cuffia, nelle prime pagine (potremmo anche dire scene) dal nostro investigatore. Tanto per fare capire subito il ritmo dell’opera, contrassegnata sempre da armonia e contrappunto. Non a caso l’irruzione occasionale di un’inevitabile musica classica assume le tonalità di un ‘jazzistico’ Johann Sebastian Bach, rappresentato dai sublimi ‘Concerti Brandeburghesi’. Un ritmo che è anche quello di molto cinema di genere, al quale il racconto quasi esplicitamente sembra rivolgersi.

    La trama, in verità, ci sembra di importanza secondaria, e, comunque non esente da una certa stereotipizzazione, ma è sovrastata dalla maestria nello scrivere in cui eccelle l’ambasciatore Risi, debitore, con originalità, di dichiarati modelli letterari, da Roger Peyrefitte a John Le Carrè, fino a Raymond Chandler, direttamente omaggiato, con la trasposizione, in apertura, di un suo fulminante testo.

    Eccoci, in ogni caso, catturati sin dalla prima pagina, a seguire le sorti di Issa, rapito sulla litoranea da Tel Aviv a Jaffa, mentre è distratto dal brano di Metheny che ascolta in cuffia, e portato al cospetto di un grande Vecchio, identico a molti altri incontrati in svariati film e telefilm, con tanto di rughe e aria di mistero. Questi è interessato a un’indagine che, finalmente in proprio, dopo una vita al servizio dello Stato, Issa sta conducendo per conto di un’avvenente neo-vedova. La storia è incentrata sulla morte del marito, probabilmente collegata ai celeberrimi Rotoli del Mar Morto. Qui la vicenda sembra prendere una pericolosa piega alla Dan Brown, ma l’autore, puntando sull’introspezione chandleriana del protagonista e sulla sua personale, straordinaria conoscenza del ‘bel mondo’, riesce abilmente a sottrarsi alla noia del già letto e alla pretenziosità di un genere tanto in voga. L’elemento spirituale è volontariamente ignorato, quando non direttamente respinto dal nostro detective che, pur immerso in ambienti che lo evocano espressamente (conventi, moschee, sinagoghe, il solito Vaticano), si corazza dietro la disillusione dell’uomo vissuto. O, per meglio dire, frustrato. Dagli insopprimibili sensi di colpa per un amore finito tragicamente, come dal senso di incompiutezza e di fallimento esistenziale che sembrano zavorrarlo ovunque. Per nostra fortuna, non al punto da evitargli i piaceri della vita, descritti da Risi con l’elegante maestria di chi li usa, ma mai ne abusa, pur con qualche audace concessione a un erotismo in qualche caso spicciolo, in altri, conturbante. Un risvolto classicamente da ‘ghiaccio bollente’ hitchcockiano.

    Le donne, spesso belle, che incontra il protagonista, sono ben lontane dal modello Bond Girl, ma altrettanto da qualsiasi afflato romantico. Che siano la cliente, la giovane bibliotecaria, la commilitona, la vicina di casa, la suora integralista, la diplomatica, la locandiera vedova, come la fascinosa spogliarellista, sono tutte emancipate e disilluse come lui, quasi a giustificare la sua misoginia di fondo, pur non accentuata come in alcuni dei suoi dichiarati modelli. Non può quindi stupire la sensibilità esibita da Issa, nonostante il perenne esercizio fisico e cosmetico ‘anti-aging’, verso i piaceri offerti dalla buona tavola. Per la quale osa non rispondere a una telefonata del dispotico Vecchio, non volendo essere disturbato in un momento cruciale della giornata. E così, quasi ogni snodo principale della vicenda ha a che vedere con un pasto. Dal semplice caffè con un gianduiotto, letteralmente alle origini della sua vita, a un pranzo in un ristorante stellato, situato all’interno di un suggestivo convento nelle Ardenne, con un morto per meditazione post-dessert.

    Il racconto, dicevamo, è cosmopolita: si svolge tra Israele, Francia, Belgio, Italia, Giordania. Si parte da Tel Aviv e Jaffa, per poi trasferirsi a Gerusalemme (la al-Quds del titolo), e da qui partire, anche con l’aiuto di flash-back, in direzione Torino e Parigi, salire fino alle Ardenne e a Bruxelles, arrivare a uno snodo cruciale nella Roma non solo papalina, per poi ritrovarci finalmente nella Giordania dei Rotoli di Qumran. La chiusura è, tuttavia, riservata alla lussuriosa Parigi di Pigalle, nell’enigma di un rapporto che può fare pensare a un’evoluzione amorosa.

    Ognuno dei luoghi raggiunti da Issa diventa l’occasione per mirabili descrizioni di ambienti naturali e artificiali, grazie alle quali l’autore esibisce un talento descrittivo straordinario. Che si tratti di un’opera d’arte o di un panorama, di arredi e oggetti di design, di grandi vini (spesso tra gli emergenti israeliani delle Alture del Golan o tra i classici libanesi) o di cibi di ogni sorta, di conventi o dei suoi abitanti, di ambasciate (chissà se almeno in parte abitate dall’autore), Risi riesce a farci sentire al cinema, tanto vividi sono i colori evocati nelle sue descrizioni e tanto movimentate le scene.

    La fine della vicenda (di un giallo si può fare solo un minimo accenno alla trama) può lasciare un po' di ‘chandleriano’ amaro in bocca, ma, come per alcuni buoni vini, è per predisporci a un altro sorso.

     

    Ettore Zecchino

     
    Alle origini dell'etica ambientale

    Pregevole saggio della professoressa Luisella Battaglia, ‘Alle origini dell’etica ambientale’. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi’ (edizioni Dedalo), ad oltre 20 anni dalla sua pubblicazione, ha acquisito lo status del ‘classico’. L’opera costituisce infatti un ottimo punto di partenza per chiunque volesse addentrarsi nel settore ancora ‘giovane’ dell’etica ambientale, dove la professoressa Battaglia si muove con l’autorevolezza di una direttrice d’orchestra e con la passionalità di un primo violino. Capace di coordinare memorabili acuti di giganti del passato con profonde considerazioni dei sistematizzatori del presente, guidati, entrambi, dalla sicurezza di una invisibile bacchetta fuori scena. L’’esibizione’, introdotta da un prezioso contributo storico-giuridico-filosofico del professore Francesco De Sanctis, parte con l’enunciazione dei temi portanti dell’intero saggio, visti nel loro problematizzato punto di arrivo. E così, il macrotema dell’etica ambientale viene immediatamente contestualizzato nell’ambito dell’emersione, ormai completa, di una generalizzata coscienza ecologica, fattasi largo tra non pochi rigurgiti antropocentrici, motivati da una presunta minaccia all’essenza stessa dell’umano. All’opposto, tale coscienza ecologica è chiamata a resistere agli equivoci della cosiddetta ecologia profonda, in grado, effettivamente, di colpire al cuore qualsiasi concettualizzazione dell’originalità umana. Spinte e controspinte studiate con preoccupazione dall’autrice che, pur schermandosi dietro rassicuranti sentenze di giganti della contemporaneità, intende arruolare illustri testimoni del passato in una personale guerra alla cattiva coscienza di molti. L’ecologia è certamente, secondo una celebre definizione di Edgar Morin, una scienza nuova, che permette una comunicazione interdisciplinare e il riconoscimento di una stretta interrelazione tra l’oggetto e l’ambiente in cui si trova. Ma, ciò posto, come approcciare ad essa con il carico del plurisecolare umanesimo antropologico depositato in tutti noi? Ecco, quindi, materializzarsi la sfida di un nuovo umanesimo ‘ecologico’, intravisto o magistralmente praticato dai quattro eroi del sottotitolo.

    A questo punto siamo al cuore dell’opera e il piacere della lettura si impenna. Da una scorrevole e puntuale disamina del dibattito odierno intorno alla bioetica, la professoressa Battaglia ci ‘trasporta’, infatti, nel giardino fiorito degli argomentati punti di vista di Voltaire, Michelet, Thoreau e Gandhi. Con una regia da Oscar, l’autrice alterna sue introduzioni e/o spiegazioni a brani tratti sapientemente da opere scelte dei quattro autori.
     Da Voltaire, uomo simbolo del Settecento, Luisella Battaglia estrapola soprattutto il concetto della tolleranza, elargito ora con ampio ricorso all’ironia, ora con una prosa polemica e tagliente all’indirizzo di grandi del passato. Bersaglio principale è il dogma cartesiano dell’animale automa, smontato dalla viva voce delle stesse bestie (un cappone e una pollastrella) che ne ‘La cena del conte di Boulainvilliers’, nel mezzo di una mansueta attesa della morte per mano umana, ridicolizzano le contraddizioni di questa ed altre simili visioni del mondo animale, consentendosi anche l’umiliante concessione di un non richiesto perdono. A significare, quindi, la possibilità di un nuovo umanesimo, urgentemente richiesto dalla comune precarietà creaturale in un universo, reso più familiare dalla rivoluzione scientifica, ma pur sempre ostile e patrigno. Una visione pessimistica ma struggentemente poetica, declinata da Voltaire in molte altre sedi e con stili sempre diversi, nella direzione di una compiuta etica del riconoscimento, alla base di qualunque riferimento futuro ai diritti degli animali.
    Esseri, questi ultimi, considerati ‘fratelli’, in pieno Ottocento, da un sorprendente Jules Michelet, che, da sommo storico della Francia e della sua Rivoluzione, vira, nella seconda parte della sua carriera professionale, verso studi naturalistici. Il concetto di popolo, monumentale presenza nei suoi tomi storici, si estende, quindi, in un favoloso ampliamento degli ideali rivoluzionari, al mondo animale, nella costante tensione verso l’emancipazione reale di tutte le creature. Un’etica della responsabilità imprescindibile per l’uomo, chiamato a restituire agli animali quanto da loro ricevuto, con la creazione di una paritaria società dei viventi.
    Di ecologia in senso proprio, secondo Luisella Battaglia, possiamo iniziare a parlare solo con Henry David Thoreau, contemporaneo di Michelet, ma incline a una riflessione più ampia sulla natura dei viventi, allargata alla sua prevalente parte inanimata. Nei boschi in riva al lago Walden, presso Concord, in Massachussetts, Thoreau si ritirerà volontariamente, desideroso di vivere con saggezza. E alla natura tutta rivolgerà i suoi sforzi, nella speranza di comprenderne l’arcano linguaggio, per instaurare un rapporto intimo di ‘simpatia’. L’opposto del naufrago Robinson Crusoe, impegnato ad affermare, sull’isola deserta, i suoi valori borghesi. E lontanissimo dall’ideologia puritana della frontiera, fondata sul dominio della natura selvaggia. Quella ‘wilderness’ che Thoreau, al contrario, invoca come un salvifico spirito guida verso un’esistenza realmente degna di essere vissuta. Una vita improntata a un’ecologia della libertà’, tesa a valorizzare l’individuo e a connetterlo con la natura, preservandola dalla distruzione come anche da una sua antropomorfizzazione. Un obiettivo, quindi, di connessione e mai di fusione nella natura, al riparo da strumentalizzazioni economiche (Thoreau condannava lo sfruttamento economico delle foreste, anche nella forma ‘illuminata’ del sistema turistico dei parchi naturali, che pure, involontariamente, ha contribuito a far nascere)  e o filosofiche, e, men che meno, da virate new age.
    Congedatasi idealmente dai tre illuminati pensatori occidentali, l’autrice si rivolge all’Oriente per una nuova etica ecologica, trovandola nella Grande Anima di Gandhi, qui presentato come un pensatore libero da rigidi dogmatismi e capace di parlare anche ad altri mondi. Un uomo recuperato a una piena e consapevole adesione all’induismo da non irrilevanti influssi culturali occidentali. Un ‘Mahatma’ che si fa autorevole propugnatore di un’etica della responsabilità alla base di scelte in parte ‘spiazzanti’. Come le deroghe all’ahimsa (non violenza) per i casi di inevitabile difesa del più debole o, addirittura, per l’eutanasia, da praticare, a vantaggio di qualsiasi creatura, in presenza di una irrisolvibile sofferenza senza sbocchi. E come un certo ‘pragmatismo’ nella sacralizzazione della madre vacca, fonte primaria di sostentamento del villaggio indiano, provocatoriamente anteposta alla madre umana. Scelte cui l’uomo è chiamato, non dovendo mai rinunciare all’esercizio della responsabilità, declinata in rapporto all’intero creato. Di qui lo sbocco nell’etica della cura, che - auspica infine l’autrice - superando il paradigma contrattualista, possa spronare l’Occidente e il mondo intero a una non più rinviabile azione di tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia possibile.

     

    Ettore Zecchino

    Cronache della pandemia

    Un lungo reportage sulla pandemia da leggere come un audio-libro, tanto incalzante nel ritmo, quanto preciso e scorrevole nei contenuti. E’ questo e molto altro ‘Cronache della pandemia. Storia e storie degli anni che hanno cambiato la nostra vita’, del giornalista RAI Daniele Morgera (editore La Bussola). Una pubblicazione utilissima al lettore ‘generalista’, per la straordinaria valenza divulgativa e, non raramente, anche informativa, grazie ai numerosi inediti estrapolabili dalla lunga pagina ‘cronachistica’, e, soprattutto, dalle otto interviste esclusive che chiudono il volume. Un lavoro, tuttavia, sicuramente consigliabile anche al lettore specializzato o all’addetto ai lavori, per la straordinaria capacità di sintesi espressa, capace di scolpire con sicurezza e affidabilità tutti i punti fermi raggiunti dalla scienza in merito alla natura e alle caratteristiche del famigerato COVID-19. E, più ancora, grazie all’abilità dell’autore nel far dialogare tra loro uomini e donne di scienza, alla ricerca di un minimo comune denominatore possibile tra ‘cervelli’ della stessa o di diverse discipline. Un approccio nitidamente biculturale, pur focalizzato sulla ricerca virologica.
    Nel libro è rispecchiato in pieno il consolidato talento cronachistico dell’autore, capace di spaziare in tutte le dimensioni del giornalismo e in grado, quindi, di trattare il tema pandemico da più punti di vista. Le varie tappe del viaggio a cui ci chiamano le circa 220 pagine di questa galoppata nell’era del COVID portano quindi in tutto il mondo, in una prospettiva autenticamente globale, appannaggio di un esperto inviato RAI, ma, a sorpresa, scavano anche nei nostri ricordi personali. Metaforicamente, per chi facilmente si riconosce in almeno qualcuno dei tanti brandelli di vita vissuta in un tempo che ha visto il mondo unirsi nel dolore e somigliarsi nella sofferenza. Ma anche direttamente, nel ricordo ancora vivido di quanti hanno avuto un coinvolgimento personale nelle vicende narrate.
    E’ proprio il caso della comunità di Biogem e del contributo che l’Istituto irpino ha da subito offerto alla comune battaglia contro il virus. Un impegno descritto con sintetica esattezza nei report sui numeri costantemente crescenti delle attività di refertazione giornaliera di tamponi rinofaringei, alla ricerca del COVID-19. Un impegno, al tempo stesso, nobilitato dalla volontà di supporto al territorio manifestata da Biogem, colta in pieno dall’autore e provata dal notevole sforzo di momentanea riconversione ‘scientifica’ del centro di ricerca.
    L’Irpinia, e più precisamente la ‘sua’ Ariano, occupa un posto rilevante in questo reportage. Qui Morgera, pur cittadino del mondo, si sente a casa, e, per un attimo, sveste i panni del cronista totalmente asettico, consentendosi valutazioni e opinioni personali, ma ancorando gli uni e le altre a dati di cronaca stringenti. Egli parte da un anelito alla verità che lo porta a ribaltare versioni frettolosamente spacciate per ‘definitive’, nonostante il portato di dolore e incomprensione sottostanti. In particolare, Morgera non esita a censurare implacabilmente il clima di caccia alle streghe troppo spesso respirato a queste latitudini. Un’atmosfera, del resto, percepita anche in contesti molto meno provinciali e, almeno sulla carta, più qualificati. Come gli studi televisivi, dove, in certi momenti e in determinati luoghi, alcuni talk show erano diventati una giungla senza regole, alimentando una cosiddetta infodemia, fortemente stigmatizzata dall’autore.

    Lungi dal rassegnarsi a queste, pur sentite considerazioni, Morgera prova ad alimentare la speranza e l’autostima di una comunità nazionale ferita, ma ancora vitale e dinamica. Lo sorreggono, ancora una volta, i tanti chilometri percorsi realmente o metaforicamente nella sua attività lavorativa, sempre alla ricerca di storie. Per fortuna, spesso edificanti. Dall’abnegazione del personale medico, alla generosità dei singoli, alla rapidità nella risposta al virus di una comunità scientifica capace di decuplicare gli sforzi e di realizzare vaccini efficaci in tempi record (illuminante, in quest’ottica, il colloquio avuto dall’autore con il siciliano Andrea Carfì, Responsabile della divisione Malattie Infettive di Moderna). L’ottimismo di fondo che l’autore vuole e riesce ad imprimere al lettore, idealmente sigillato nel capitolo finale del libro in un’intervista esclusiva al Premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, non lo allontana, tuttavia, di un millimetro dalla vocazione all’approfondimento a 360%, tipica dei giornalisti di razza. Fioccano infatti gli interrogativi, talvolta anche conditi di stupore, in merito a tante vicende ancora avvolte in qualche ombra. Dal pasticcio sui continui ritiri del vaccino Astrazeneca, al grave ritardo italiano nel campo delle cure contro il virus. Dall’utilizzo a scartamento ridotto di antivirali e monoclonali, pur giudicati fondamentali per alcune categorie di pazienti, alle inefficienze nell’approvvigionamento di mascherine e di altri presidi sanitari. Dall’assoluta carenza di investimenti nei sistemi di areazione per edifici pubblici e per le scuole (in questo secondo caso è descritto un esempio particolarmente virtuoso nella meridionale Bari), ai mancati investimenti per l’’adeguamento’ dei mezzi pubblici, fino ad interventi piuttosto naif come i banchi a rotelle destinati agli alunni nei plessi scolastici e largamente inutilizzati. Ancora, e, soprattutto, l’incomprensibile rinuncia a sostenere l’avventura di un vaccino tutto italiano, pur intrapresa con slancio da due player consolidati come ReiThera e Takis.
    Pagine di cronaca talvolta inedite, spesso originali, sempre accattivanti, che anticipano la seconda parte del libro, dedicata all’approfondimento scientifico, grazie a ben otto interviste esclusive ad altrettanti protagonisti della comunità scientifica, tutti in prima linea nella battaglia contro il COVID-19. Il già citato Giorgio Parisi è qui in buona compagnia e chiude una galleria di personaggi che si apre con l’ex mister EMA (European Medicines Agency), Guido Rasi, sincero, tra l’altro, nel mettere in luce i notevoli deficit comunicativi dell’agenzia continentale del farmaco. Un’onestà intellettuale che sembra emergere da tutti i contributi sollecitati da Morgera, come spesso si rinviene nelle migliori interviste. Da quella con Walter Ricciardi, superconsulente del Ministro per la Salute, Roberto Speranza, che non esita ad attribuire alle indecisioni della politica (ma non del ‘suo’ ministro), la responsabilità del forte impatto sull’Italia della seconda e terza ondata virale. In altro senso, colpisce il chiaro sospetto anti-cinese del Presidente dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e virologo di fama, Giorgio Palù, che, forse in leggera controtendenza rispetto al grosso della comunità scientifica, afferma di non potere escludere, allo stato attuale delle conoscenze, che l’ormai famigerato Istituto di Virologia di Wuhan possa essere il luogo di origine della pandemia.
    Si vola alto anche con gli interventi di due grandi protagonisti della lotta al COVID-19, l’epidemiologo Massimo Ciccozzi e il ‘sommo sacerdote’ della Prevenzione Sanitaria, Giovanni Rezza, pronti ad offrire all’autore preziosi input in materia scientifica e politico-sanitaria. Con il professore e clinico Francesco Cognetti, chiamato in causa da Morgera per il suo ruolo decisivo nel consentire l’allargamento ai pazienti oncologici del diritto alla priorità negli itinerari vaccinali, si apre infine, la pagina del futuro riservato ai preparati ad  mRNA messaggero, massicciamente usati contro il COVID-19. Un capitolo abbozzato da Cognetti e poi sviluppato dal Direttore Scientifico dell’IRCCS ‘Istituto Nazionale Tumori Regina Elena’ di Roma, Gennaro Ciliberto. A lui dobbiamo, in particolare, la capacità di farci intravedere un vero cambio di passo nella difficile lotta al cancro, grazie ai vaccini ad mRNA e ai recenti studi sulla possibilità di trasportarli in maniera mirata all’interno dell’organismo umano.
    Alti e bassi di un sistema sanitario popolato da eccellenze, ma troppo spesso non supportato dalla sensibilità di una politica che presto dimentica e che, sembra ammonire Morgera, passata l’emergenza, appare incapace di apprenderne le lezioni più importanti. Una sanità, quindi, che, lungi dall’essere stabilizzata in un nuovo percorso virtuoso, presenta l’alto rischio di ricadere in una malattia cronica, alimentata da scarsi o inappropriati investimenti e da una soffocante e zavorrante burocrazia. Deficit e inadeguatezze che, forse, spiegano bene alcuni dati, altrimenti incomprensibili nella loro durezza (come il numero dei morti da COVID-19 in Italia, percentualmente superiore a quello di altre realtà a noi omogenee).
    Inefficienze e negatività alle quali Daniele Morgera contrappone l’arma di una conoscenza sempre più diffusa, capace di generare consapevolezza collettiva e di farsi pungolo permanente per chi è chiamato a decidere. In fondo, l’essenza del migliore giornalismo, meritevole di sostegno e di lettori, anche quando si sdoppia in corso d’opera e si congeda come un magistrale saggio di divulgazione scientifica.

     

    Ettore Zecchino

    Il mio neutrino

    Porta la prestigiosa firma del professore Antonio Ereditato ‘Il mio neutrino’, l’ultima pubblicazione della casa editrice Rubbettino per la collana ‘Le 2ue Culture’ della Fondazione Biogem. L’autore, qui nella simultanea veste di co-direttore dell’iniziativa, si presenta al lettore in maniera inedita. Allo scienziato rigoroso e inappuntabile degli esordi e al divulgatore di alto livello degli ultimi tempi, qui si sostituisce l’uomo, impegnato, nello stile sobrio ma accattivante che gli è proprio, a raccontare senza risparmio una fase cruciale della sua lunga carriera. Tutto il libro, pur in un percorso ‘graduale e concentrico’ è infatti il resoconto del celebre esperimento OPERA e degli emozionanti alti e bassi di una straordinaria non scoperta. Parliamo naturalmente della velocità dei neutrini, in un primo momento stimata erroneamente al di sopra di quella della luce, posta da Albert Einstein come limite assolutamente invalicabile. Con le eventuali, sbalorditive conseguenze note o comprensibili a tutti, enfatizzate da tanta cultura popolare intrisa di fantascienza e dalla prevedibile grancassa mediatica.
    Ereditato rivela in questo testo un’inquietudine mai sopita e avverte il bisogno di chiarire i termini esatti della questione. La vicenda narrata ci offre quindi il raro privilegio di entrare dalla porta principale nel mondo, generalmente chiuso, o almeno ermetico, dei grandi esperimenti scientifici, per certi versi tanto più ‘misteriosi’, quanto più partecipati.
    L’operazione è condotta con il consueto scrupolo cui l’autore ci ha abituato da tempo, seguendo con estrema pignoleria il metodo scientifico. Siamo così condotti nel complesso mondo della fisica delle particelle. Per poi essere catapultati all’interno di alcuni tra i più importanti esperimenti della fisica contemporanea, svolti da grandi squadre internazionali, all’interno di importanti istituzioni e 'luoghi' del settore, come il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) di Ginevra, o lo statunitense FermiLab, intitolato al sommo fisico italiano, fino ai nostri LNGS (Laboratori Nazionali del Gran Sasso). E così il neutrino del titolo assurge gradualmente al ruolo di protagonista del libro, come già faceva intendere l’incipit tratto dal fisico austriaco Wolfgang Pauli, che per primo ne teorizzò l’esistenza, quasi un secolo fa.
    Di neutrini si occupava il progetto CHARM2, in corso al CERN di Ginevra nei primi anni 80, che segna il debutto in uno studio su questa particella elementare per il professore Ereditato. Un esperimento concluso con successo, grazie alla misurazione ad alta precisione dell’angolo di Weinberg, il parametro fondamentale della cosiddetta teoria elettrodebole, ma che già in corso d’opera aveva forse costituito il viatico per uno degli ‘incontri della vita’ del professore napoletano, coinvolto in un’inattesa conversazione, presso il JINR ( Joint Institute for Nuclear Research) nella sovietica Dubna, con uno dei suoi miti, lo scienziato pisano Bruno Pontecorvo. Questi, lontano dalla sua patria, era interessato a scambiare opinioni sulla situazione politica italiana, ma non si trattenne dall’esternare a un collega molto più giovane di lui le sue considerazioni sulle oscillazioni dei neutrini, che lui per primo aveva ipotizzato.
    Proprio la ricerca di questa oscillazione (in pratica la trasformazione di neutrini di un dato tipo, o sapore in gergo, in un altro tipo) fu alla base dei due esperimenti CHORUS e NOMAD, approvati al CERN e condotti con metodologie diverse. Il racconto di Ereditato assurge in questi momenti a magistrale opera di storia della scienza e della tecnologia. Non casuale ci appare la rivalutazione piena della scuola nipponica, orfana, negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, di acceleratori di particelle e di altre straordinarie dotazioni tecnologiche appannaggio dell’Occidente, e anche per questo un po’ isolata, ma ugualmente performante, grazie alla perizia acquisita negli studi sui più ‘economici’ raggi cosmici. Competenze, quelle giapponesi, fatte in parte proprie e comunque fruttuosamente utilizzate da Ereditato, tra i maggiori sponsor di sempre nuove partnership con i colleghi del Sol Levante. Questi ultimi sono sempre stati, ad esempio, profondi conoscitori della tecnica delle emulsioni fotografiche nucleari, alla base di tante ricerche sui neutrini, incluso il progetto OPERA, tanto da poter recriminare su almeno un Premio Nobel non assegnato al professore Niu di Nagoya.
    Si giunge quindi ad una delle parti del racconto forse più ‘frustranti’ per un lettore generalista, sballottato tra concetti ed esempi in alcuni casi incomprensibili quasi in egual misura. La sensazione di straniamento, per fortuna, dura poco. Il libro infatti si riscalda e si impenna con l’avvento dell’esperimento OPERA (altro nome musicale), non comprensibile in tutti i suoi passaggi, ma sempre in grado di toccare le corde di un’emotività mai fine a se stessa. Stiamo parlando dell’arcinota vicenda dei ‘neutrini super-luminali’, che ha tenuto con il fiato sospeso la comunità scientifica internazionale e non solo quella, negli ultimi mesi del 2011 e nei primi mesi del 2012. Non proprio tutti sanno che l’obiettivo iniziale dell’esperimento, pienamente raggiunto, era la scoperta del fenomeno di oscillazione del neutrino in apparizione, vanamente 'cercato' nei già incontrati progetti CHORUS e NOMAD e genialmente anticipato in via ipotetica da Pontecorvo. Una sottolineatura, questa, ancor meno scontata a distanza di anni dall’evento, talvolta ingiustamente percepito come un fiasco, a causa dell’errore commesso.
    Il professore Ereditato ovviamente non la pensa così e non esita a dettagliare minuziosamente le sue argomentazioni. La parte finale del libro diventa quindi una dichiarata, avvincente difesa del proprio operato, fisiologicamente legata all’esaltazione del metodo scientifico, per Ereditato il più grande paradigma di conoscenza esistente e al tempo stesso la garanzia maggiore della capacità autocorrettiva della scienza.
    La misurazione della velocità dei neutrini, pubblicamente sempre definita un’anomalia in attesa di conferma, si scopre essere stata un abbaglio, indotto da difetti strumentali concettualmente banali, ma nei fatti estremamente difficili da identificare. L’autodifesa di Ereditato, responsabile del progetto OPERA, è granitica e fondata sulla piena trasparenza nell’aprirsi ai più disparati contributi internazionali e al generale coinvolgimento della comunità scientifica. Comprensibile, quindi, pur nella delusione per la mancata scoperta, è il compiacimento per essere riusciti autonomamente ad individuare l’errore. Che, in realtà, Ereditato non chiama precisamente così, convinto di avere agito in maniera scientificamente oltre che moralmente corretta.
    Da un male, quindi, per l’autore si è senza dubbio giunti ad un bene, e cioè alla verifica sul campo della piena tenuta di un metodo, alla base della condizione privilegiata della scienza, al riparo, più di altre branche, dalle tentazioni dell’approssimazione e del pressapochismo. E in grado di affrontare al meglio le crisi, non a caso magnificate da Albert Einstein come autentiche incubatrici di meriti.
    Quanto al rapporto tra scienza e società e, segnatamente, al legame necessario ma scivoloso con il mondo della comunicazione, caro professore, aspettiamo un altro libro.

     

    Ettore Zecchino

    Invenzioni a due voci

    Concettoso saggio comprensibile a pieno solo dagli ‘specialisti’ o dai ‘volenterosi’, ma suggestivo per tutti, ‘Invenzioni a due voci. Dialoghi tra musica e scienza’ di Gianni Zanarini (editore Carocci), rappresenta l’ideale chiusura di un percorso di letture lungo un anno, incentrato sui legami tra arte e scienza. Un rapporto per secoli di assoluta ‘coincidenza’, dal momento che la musica, ancora nel Medioevo, era, insieme alla geometria, all’aritmetica e all’astronomia, parte del ‘Quadrivio’, cioè delle discipline scolastiche attribuite alla sfera matematica.

    Il saggio di Zanarini parte da Pitagora e dalla sua quaterna numerica (la celebre ‘tetraktys’) creduta alla base dell’armonia universale e capace di permeare di sé la musica composta, cantata e suonata per quasi duemila anni. Una teoria accettata da Platone e, nonostante lo scetticismo aristotelico, irrobustita in seguito da speculazioni di altri grandi, come Cicerone, Agostino e Boezio. A quest’ultimo, in particolare, risale la suggestiva definizione di ‘musica mundana’, intesa come una musica dell’universo, un’armonia cosmica della quale anche la natura dell’uomo è un riflesso. Un concetto che, mediato da quello di armonia geometrica del cosmo, ha scosso anche, molti secoli dopo, il grande astronomo tedesco Johannes Kepler, convinto che – come ci spiega Zanarini – ‘’l’armonia celeste abbia realmente e non solo simbolicamente, una dimensione musicale, che va ricercata a partire dalle nostre conoscenze sul sistema planetario’’. Kepler parlò, a questo proposito, di un ‘’canto polifonico’’ e non stupisce, quindi, il fascino esercitato da questa suggestione su un musicista attivo tre secoli dopo, Paul Hindemith, sostenitore dell’esistenza di un ‘’fondamento perenne della musica... altrettanto universale delle leggi che regolano il mondo fisico’’.

    Romantiche o isolate suggestioni a parte, Zanarini ci ricorda tuttavia che a riportare la musica sulla terra ci aveva pensato la rivoluzione scientifica seicentesca, che annovera, tra i suoi frutti, la nascita dell’acustica musicale, intesa come nuova disciplina. Molti scienziati si ‘occuparono’ in quegli anni di musica, anticipati decenni prima da Leonardo, che condusse ricerche sulle vibrazioni sonore e sulla propagazione del suono.
    Qualcuno ha definito il genio di Vinci un  nonno della scienza, ma è un altro nonno che a sorpresa occupa un ruolo di primo piano in questa avventura a due voci. Come un piccolo colpo di teatro, almeno per i non specialisti della materia, il professore Zanarini introduce infatti la figura di Vincenzo Galilei, padre del grande Galileo, e, ci sembra di capire, molto influente nella formazione culturale del figlio. Proprio al maestro di liuto Vincenzo va riconosciuto un approccio modernamente sperimentale all’argomento, grazie al quale, contro un certo dogmatismo numerologico del suo maestro Gioseffo Zarlino, si verifica una rivalutazione del sapere incorporato nella costruzione degli strumenti da parte dei liutai suoi contemporanei. Anche questa una rivoluzione, a sorpresa sposata dal celebre figlio che, interrotti gli studi di medicina a Padova, si butta a capofitto nell’annosa disputa. Un cimento immortalato, ben 50 anni dopo, nel celebre ‘Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze’. Dalle teorie numerologiche si passa quindi alle ‘sensate esperienze’, mentre pendoli e corde, frequenze e consonanze entrano dalla porta principale nel meraviglioso mondo della rivoluzione scientifica galileiana.
    Basterebbero questi pochi cenni a dare un’idea compiuta delle tante sublimi curiosità presenti nel saggio, ma il libro consente una lettura molto meno superficiale, intriso com’è, soprattutto nella seconda parte, di dotti tecnicismi e acuti collegamenti, in grado di spaziare dalla fisica dei suoni alla fisiologia dell’ascolto, per arrivare alla psicologia della percezione. L’autore ci porta quindi con mano in un percorso che non perde mai di vista l’iniziale obiettivo programmatico, ma che diventa, più o meno involontariamente, una storia della musica moderna vista da una diversa angolatura. Qui dei tre sommi non si parla, se non per il riferimento a Bach del titolo, ma si approfondiscono le gesta di alcuni grandi teorici ed accademici di questa arte, come lo Zarlino contestato dai Galilei, o come quel Jean-Philippe Rameau, già grande compositore, qui appellato come il Newton dell’armonia, ispirato, a sua volta, dagli scritti del fisico Joseph Sauveur e dal teologo-scienziato Marin Mersenne.
    Sono molti altri i collegamenti emergenti nel testo, via via capace di aprirsi alla musica suonata, ma guardando agli strumenti con un approccio autenticamente scientifico. Con lo stesso metodo il fisiologo tedesco Hermann von Helmotz studiava nel frattempo le reazioni all’ascolto musicale da parte dell’orecchio umano.
    Zanarini si tuffa quindi nelle grandi rivoluzioni contemporanee, come quella dodecafonica di Arnold Schoenberg, tra i primi a comporre al di fuori del sistema tonale, o quella ‘concreta’ di Pierre Schaeffer, per arrivare a quella elettronica di Karlheinz Stockhausen, interessato a integrare l’ambiente di ascolto nell’esecuzione musicale. Proprio la rivoluzione elettroacustica e quella informatica sono, secondo l’autore, alla base dei maggiori cambiamenti nella musica contemporanea, garantendo al compositore del nostro tempo una liuteria virtuale illimitata (ma anche l’invenzione di nuovi strumenti) e una sconfinata libertà creativa. Sbarchiamo quindi in un nuovo mondo, ricco di ‘istallazioni musicali’ e di ‘paesaggi sonori’, ma anche di silenzio intervallato da suoni più o meno naturali, come nella celebre e muta ‘4 33’ di John Cage.
    Una musica che, ora più che mai, è ‘’un fare con i suoni’’.

     

    Ettore Zecchino

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