Ennesimo successo editoriale di uno dei fisici italiani più conosciuti all’estero, ‘Helgoland’ (Adelphi-2020) di Carlo Rovelli è un breve saggio dal ‘respiro’ romanzesco sulla storia del decisivo punto di svolta impresso alla meccanica quantistica dal ventitreenne Werner Heisenberg, in solitaria meditazione, nell’estate del 1925, sulla mitica ‘isola sacra’ del Mare del Nord. Una visione maturata in un luogo dove, secondo Goethe, ‘’può essere sperimentato lo spirito del mondo’’ e che si fonda sul concetto di osservabili e sulla matematica delle matrici. Approccio alla base di uno straordinario scatto in avanti per la teoria fisica più importante e più efficace, ma anche più misteriosa, del nostro tempo, all’epoca nata da un paio di decenni, grazie a personaggi del calibro di Max Planck (sicuramente il progenitore), Albert Einstein (un ispiratore) e Niels Bohr (per certi versi, il teorizzatore), ma che era ancora priva di una quadratura scientifica. Tale intuizione viene poeticamente introdotta da Rovelli, che pone l’accento sulla sua nascita ‘romantica’, in una spoglia e spopolata isola sferzata dai venti nel febbrile cervello del giovane Heisenberg. Di lì a poco sarà tuttavia perfezionata, a suon di complessi calcoli matematici, dal confronto con altri rampanti ventenni (Pascual Jordan, Wolfgang Pauli, Paul Dirac), e dall’unico ‘adulto’ del gruppo, il quarantenne Max Born. Un’interpretazione della fisica dei quanti parzialmente ampliata, poco tempo dopo, dall’austriaco Erwin Schrodinger, sostenitore, sulla scia del francese Louis de Broglie, della natura ondulatoria dell’elettrone, visione ugualmente ‘esatta’, eppure subito confinata da Rovelli a prezioso, ma puro e semplice supporto matematico. Il fisico italiano mostra, quindi, una fede incrollabile (consentendoci una parola scivolosa quando si tratta di scienza) per il suo illustre collega tedesco di un secolo addietro, con buona pace di tutte le altre interpretazioni dei fenomeni quantici, scetticamente riportate nel corso del libro.
Fino ad una sorta di cambio di passo, con l’esternazione della visione ‘rovelliana’ del mondo, considerato come un incessante luogo di ‘interazioni’, dove l’individualità stessa si fonda sul concetto di relazione e dove la sostanza ultima diventa vacuità, inesistenza. Un assunto rafforzato in Rovelli da un’appassionata lettura del monaco buddista Nagarjuna, vissuto quasi duemila anni fa, ‘incontrato’ di recente dopo un prolungato scetticismo, e, per questo, particolarmente persuasivo.
Il percorso intellettuale e scientifico del fisico veronese è completamente messo a nudo in questo saggio, che si rivela inevitabilmente ‘autobiografico’, e, per questo, necessariamente anche politico, come conferma plasticamente un’intensa digressione sullo scontro Lenin-Bogdanov, all’insegna di ‘materialismo ed empirio-criticismo’. Il tutto all’interno di una visione dell’umanità fascinosa e ottimista, sempre orientata verso un’affratellante unione universale e costantemente volta ad offrire una risposta ‘olistica’ alle più classiche dicotomie del pensiero occidentale, ben oltre il più accentuato spinozismo. E che si fa addirittura allucinata quando Rovelli (nomen omen) si addentra negli ultimi, controintuitivi sviluppi delle neuroscienze rispetto al funzionamento del nostro sistema visivo, scoprendo che il cervello (dall’interno) ‘prevede’ ciò che si trova al suo esterno e lo comunica agli occhi, che invertono la direzione dei messaggi solo quando compaiono ‘discrepanze’ rispetto a quanto il cervello stesso si attende. La percezione esterna, per dirla con Hyppolite Taine, filosofo francese dell’Ottocento, citato da Rovelli, è, quindi, ‘’un sogno interno che riesce ad essere in armonia con le cose esterne’’, come un’allucinazione confermata. Fino a giustificare, quasi in chiusura dell’opera, i celeberrimi versi che il grande bardo inglese mette in bocca a Prospero ne ‘La tempesta’, sulla natura onirica delle nostre entità, la cui ‘’breve vita è circondata da un sonno’’.
Un congedo poetico e quindi ‘meravigliosamente largo’, capace, forse, di attenuare la vertigine di scoramento che lo scritto ‘rovelliano’ può produrre in un lettore occidentale, non necessariamente credente, inquietato da una teoria disindividualizzante quante altre mai.
Compromesso finale o consolidamento di una posizione di ‘rottura’?
Shakespearianamente, questo è il dilemma!
Ettore Zecchino