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    Geppino Falco

    Geppino Falco

    Docente ordinario di Biologia Applicata presso l’Università ‘Federico II’ di Napoli, Geppino Falco è un po’ cresciuto in Biogem, dove è approdato ancora molto giovane, e dove, attualmente, ricopre il ruolo di Capogruppo del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo. Sotto i riflettori mediatici per varie attività di ricerca in materia di geni legati all’invecchiamento e alla rigenerazione delle cellule staminali, sta coordinando uno studio letteralmente ‘spaziale’ sugli effetti del resveratrolo, presente nell’uva aglianico, nel contrastare lo stress ossidativo a carico del muscolo scheletrico.

    Recentemente è stato scelto dal Rettore dell’Università ‘Federico II’ di Napoli, Matteo Lorito, come delegato alla Ricerca.

    Professore, ne ha viste tante a Biogem?

    Ho iniziato in Biogem il percorso di indipendenza scientifica, quindi un momento in cui sei focalizzato principalmente su te stesso, per evitare, o quantomeno, ridurre gli sbagli. Tale condizione, da un lato non mi ha consentito di seguire la vita politica ed amministrativa dell’Istituto, dall’altro mi ha dato l’opportunità di vivere in modo intenso i rapporti con i ragazzi, con l’organizzazione dei laboratori, con le apparecchiature ecc.

    Ho visto un Istituto che ha tanta voglia di crescere e di affermarsi nel panorama nazionale ed internazionale, senza rinunciare alla sua identità territoriale. Ho visto il premio Nobel Mario Capecchi giocare a calcio in un campo sterrato e mangiare podolico con una faccia molto incuriosita.

    Ho assistito ad una metamorfosi tecnologica. A tal proposito, ricordo che nei primissimi anni (2008-2009) insieme alla mia prima tesista allestimmo il laboratorio, raccattando tutti gli strumenti che i gruppi ‘ricchi’ non usavano. Gli strumenti erano così vecchi, ma funzionanti, che battezzammo il laboratorio con il nome di ‘Vintage’. Nella seconda fase di questa metamorfosi, invece, ho potuto contare su apparecchiature e tecnologie all’avanguardia.

    Da Rotondi a Baltimora, per poi tornare, in parte, in Irpinia? Un bel percorso!

    In piccole realtà come la mia provincia alcuni risultati e successi vengono notati maggiormente e forse ricevono più enfasi rispetto ad una grande città, facilitando la propria visibilità scientifica.

    Il percorso non è stato mai semplice e a tratti ha presentato forti difficoltà, ma è ancora in corso. In Irpinia svolgo infatti una parte della mia ricerca, che sarebbe complicato fare altrove. Ho quindi la fortuna di poter unire l’utilità scientifica al piacere personale.

    E poi fino allo spazio! Ci racconta quest’ultima esperienza?

    Si tratta di una sfida scientifica con forti ricadute tecnologiche e con promettenti prospettive nell’ambito della salute umana. Gli astronauti operano in un ambiente estremo, che mette a dura prova la fisiologia del nostro corpo. La permanenza nello spazio comporta un forte stress per alcuni tessuti, in particolare quello muscolo-scheletrico. Non sono ancora note le alterazioni molecolari alla base di tali disfunzioni, perché è difficile riprodurre nei nostri laboratori le stesse condizioni ambientali (microgravità, irraggiamento etc). Abbiamo deciso quindi di portare il nostro laboratorio nello spazio. Per poterlo fare abbiamo ideato una struttura portatile che, senza l’ausilio umano, consente lo svolgimento dell’esperimento per almeno due settimane.

    Il progetto si giova di una forte interazione e sinergia tra biologi, fisici ed ingegneri, oltre a partnership con vettori di trasporto spaziali. Diverse sono le sfide da affrontare. La prima, che riguarda l’hardware e il software, è fisica/ingegneristica. Se supereremo tale sfida, nel prossimo futuro cambieremo le modalità con cui effettueremo gli esperimenti di laboratorio. Molte altre sfide sono, invece, di carattere biologico.

    Il progetto in corso prevede che dopo un periodo di circa due settimane la NASA ci consegnerà il campione spaziale, sul quale effettueremo misurazioni di parametri genetici, biochimici e metabolici. I risultati di queste misurazioni ci consentiranno di capire come l’ambiente ‘spaziale’ ha alterato lo sviluppo del tessuto scheletrico e il ruolo dello stress ossidativo nella prevenzione di tali alterazioni. I risultati potrebbero avere un forte impatto sulla produzione di nuovi farmaci, oppure di particolari alimenti, utili per prevenire o trattare l’osteoporosi.

    Lei ha condotto, durante il suo Dottorato a Baltimora (USA), importanti studi sulle cellule staminali. A Biogem, dove ha a disposizione un apprezzato stabulario, sta in parte continuando ad occuparsene?

    A Baltimora ho avuto la fortuna, il piacere e il privilegio di incontrare persone che hanno fortemente influenzato la mia formazione e il mio modus operandi. In Biogem stiamo continuando a studiare gli aspetti che accomunano la biologia delle staminali alla ricerca oncologica.

    Prevede l’opportunità di un più forte coordinamento con il Laboratorio di Epigenetica?

    L’Epigenetica è essenziale per comprendere i processi biologici che studio e richiede una forte esperienza e adeguate metodologie, che caratterizzano il know-how del Laboratorio da poco allestito a Biogem. Si tratta di una opportunità molto importante, che andrà colta quanto prima.

    Quali i progetti in corso?

    Attualmente siamo impegnati a studiare i processi biologici e i meccanismi molecolari che ostacolano l’efficacia delle terapie per trattare e curare il cancro gastrico. La nostra ricerca è infatti rivolta principalmente ai malati oncologici.

    E la squadra in campo?

    La squadra in campo è essenziale. Il nostro gruppo include ragazze e ragazzi, con esperienze maturate sia all’interno di Biogem sia presso altri Istituti. Il team è organizzato in tre aree complementari: biologia cellulare e molecolare in vitro; modelli preclinici in vivo; e modelli preclinici ex vivo. Dovrei ringraziare tanti collaboratori che mi hanno aiutato nel corso degli anni ad allestire un laboratorio competitivo e di ottimo livello. Tra tutti loro, mi fa piacere menzionare il dottore Pellegrino Mazzone, che ha creduto nel mio progetto, si è messo in discussione, e oggi è diventato un punto di riferimento per le attività sperimentali che svolgiamo.

    Suggerimenti alla Direzione Scientifica di Biogem?

    In base alla mia esperienza, ritengo che la parte più importante del nostro lavoro sia il ‘brain storming’. Nei momenti di confronto, spesso anche accesi, emergono le criticità dei progetti, si instaurano sinergie, si propongono e discutono le soluzioni. Adotterei politiche che possano aumentare tali occasioni per l’intera comunità dell’Istituto, partendo dai coordinatori e arrivando ai tesisti.

     

    Ettore Zecchino 


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