La ricerca a tavola

    Luppolo e società

    Luppolo e società

    Noto quasi ovunque per le sue qualità terapeutiche e per il suo significativo apporto alla produzione della birra, il luppolo entra in contatto con la celebre bevanda solo nell’Alto Medioevo,  in una fase già avanzata della sua storia. Era infatti già utilizzato millenni prima dagli antichi Egizi per vari usi medici, mentre i Romani lo inserivano, insieme ad altre erbe, in non poche bevande. Proprio a questi ultimi potrebbe risalire, almeno parzialmente, l’etimologia, in realtà abbastanza controversa, del nome linneiano della pianta, Humulus Lupulus, ossia una pianta ‘lupo’, ben legata al suolo umido. Plinio il Vecchio aveva infatti scritto di questa pianta selvatica che predilige le zone temperate e umide e che soffoca i salici, comportandosi come farebbe un lupo con le pecore.
    Il loro incontro rappresenta, quindi, solo una ripartenza per entrambi, considerando che anche la birra, sia pure con altro nome e altre caratteristiche, aveva una storia millenaria alle spalle.
    Furono, come spesso nel Medioevo, i monaci, in questo caso tedeschi, a imprimere una vera e propria svolta nella produzione di questa bevanda. Grazie al luppolo, a partire dall’VIII secolo, la birra inizia ad acquistare nuovi e raffinati sentori amari, ma, soprattutto, come sacramenterà qualche secolo più tardi Ildegarda di Bingen, guadagna moltissimo in quanto a capacità di conservazione, e diremmo oggi, di mantenimento delle proprietà organolettiche per tempi lunghi. Un salto in avanti determinato dall’autorevolezza della geniale mistica medievale, circa quattro secoli prima della consacrazione definitiva, nel 1516, avvenuta grazie al celeberrimo Reinheitsgebot (l’editto della purezza). Da questo momento Guglielmo IV di Baviera obbliga i birrai ad utilizzare solo acqua, malto d’orzo e luppolo (e, ovviamente, lievito). Una rivoluzione teodosiana che renderà la birra, tra non poche resistenze, soprattutto inglesi, una bevanda ‘inevitabilmente’ luppolata. Messo definitivamente alle spalle il ‘mitico’ gruit, (antica miscela di erbe alla base della bevanda, oggetto di riscoperta ai nostri giorni), la birra prende il nome attuale (dalla radice germanica bier, che soppianta l'antico cervogia) e il luppolo diventa ingrediente importantissimo, anche se, a dire il vero, mai essenziale come l’acqua e i cereali (soprattutto malto d'orzo).
    In ogni caso, da questo momento in poi, l’Europa Centro-Settentrionale sarà abbellita da coreografici luppoleti e l’embrionale ricerca dei produttori si concentrerà in gran parte sulle varietà e le tipologie di luppolo, più o meno note. Dal pregiatissimo Saaz, coltivato in Repubblica Ceca sin dal 1100, al classico bavarese Spalt, uno dei tre luppoli 'nobili' della Germania, fino allo statunitense Cascade, frutto di uno strabiliante incrocio tardo-novecentesco anglo-russo, per arrivare al vinoso Nelson Sauvin, perla neozelandese contemporanea, in grado di evocare negli aromi il quasi omonimo vino, sono tantissime le varietà di luppolo coltivate e studiate, in luoghi ed epoche diversi, lungo un percorso spazio-temporale affascinante e in continua evoluzione. Protagonisti principali di questa epopea sono stati indubbiamente i tedeschi, il cui primato è oggi insidiato da vicino sia per quantità sia per qualità di produzione, dagli Usa, in continuo fermento, e, molto a distanza, dall’onnipresente Cina, che antichi testi medici a parte, è tornata ad occuparsi seriamente del luppolo in questi ultimi decenni. Se anche l’Africa ha i suoi discreti campioncini in erba e l'Oceania delle autentiche eccellenze, e se la birra è da tempo diventata una bevanda planetaria, il suo mondo d’elezione rimane il Nord Europa germanico, anglosassone e slavo. All’Italia non restano che le briciole, pur nella forma di piccole perle, messe su da raffinati produttori (l’irpina Serrocroce tra questi).

    La situazione si capovolge per quanto riguarda le varianti selvatiche del luppolo, i cui getti e germogli primaverili sono molto simili a un asparago, e al loro collaudato ruolo in cucina. Pur non del tutto sconosciuti ai popoli del nord (Austria e Germania in testa), questi parlano infatti un idioma prevalentemente italico. E sono i dialetti settentrionali a prevalere nettamente in questa particolare competizione.
    Spicca il Veneto, con i suoi bruscandoli di foscoliana memoria, ma non scherza il Piemonte, con i luvertin o livertin, che diventano loertis o luertis nella confinante Lombardia, e urticions nell’orientale Friuli Venezia Giulia.
    A questi nomi e alla gustosa sostanza che ‘contengono’ ci riferiremo nella nostra consueta carrellata eno-gastronomica.

    Cime di luppolo selvatico lesse con olio

    Piatto semplice, capace di evidenziare al massimo i raffinati sentori amarognoli e la delicatezza di questa piantina spontanea primaverile, che, a differenza dell’asparago, è più gustosa quando è più grande. Se mangiato da solo, può essere un ideale antipasto depurativo senza accompagnamento alcolico. Se adagiato su una fettina di pane di segale, naturalmente lievitato al luppolo, come accadeva in Piemonte, bè, un bicchierino di rustico Timorasso ci starebbe bene.
    Subric di patate con luppolo selvatico
    Rimanendo in Piemonte, e giocando un po’ sul tema delle crocchette, scopriamo un aperitivo sfizioso, che abbiniamo indisciplinatamente a un elegante Gavi.
    Minestra di bruscandoli
    Eccoci alle ‘Ultime lettere di Jacopo Ortis’, capaci di immortalare un piatto povero che molto si ‘rafforza’ con il contributo di fagioli e farro (ma gli ingredienti possono variare sul fronte legumi-cereali). Proviamo un rosso, ma di livello ‘sociale’ omogeneo, come un Raboso.

    Risotto ai bruscandoli
    Il nome dialettale veneto si impone ancora una volta per un super classico primaverile. Lo accompagniamo a un Bianco di Custoza, provando a esorcizzare le disfatte risorgimentali.

    Gnocchetti al pesto di luppolo selvatico
    Inseriamo un po’ di Liguria, ma per il vino andiamo in Friuli, puntando tutto sulla mineralità del locale Pinot Grigio.
    Frittata di bruscandoli
    Da tempi antichissimi è lo spuntino popolare veneto nel giorno della festa di San Marco. Un Chiaretto mette d’accordo tutti, tra delicatezza e sostanza.
    Livertin marià
    Variante piemontese sul tema uova e luppolo, maritato (di qui il nome) con aceto. Stile scapece. Convintamente, anche se non professionalmente, Barbera mossa.
    Salame al luppolo selvatico
    Grande idea, in prospettiva capace di rendere più igienico il processo di conservazione dei salumi. In Abruzzo se ne produce di buono. Quindi, Montepulciano.
    Biscotti al luppolo
    Quanto si sente il luppolo in un biscotto? Le opinioni sono diverse. La nostra è incerta. Forse è un pretesto per deliziarci con un raffinato Picolit.
    Carbonade alla fiamminga
    Un relativo fuori tema, in fondo un omaggio. Da Bacco a Gambrinus. Questa volta, al robusto stufato di manzo abbiniamo una corposa birra belga di abbazia, già parte integrante della celebre ricetta.

    Ettore Zecchino


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